micheleg ha scritto:Ani-sama ha scritto:
Miyazaki ha inteso far parlare i suoi personaggi nella lingua giapponese degli anni '20-'30. Questo è stato trasposto nell'adattamento italiano. Dunque, che problema c'è?
Ciò detto, certo, questo non è un forum di addetti ai lavori. Nessuno verrà censurato, al più riempito di critiche senza pietà.
Il problema, se vogliamo chiamarlo così, è la decisione dell'autore di utilizzare nei dialoghi il giapponese degli anni 20-30.
Ho già spiegato perché la ritengo un errore (dà allo spettatore la fuorviante impressione che i personaggi stiano usando fra loro
un linguaggio antiquato, mentre in realtà stanno semplicemente usando il linguaggio corrente, l'equivalente dell'epoca dell'italiano contamporeneo).
Non credo che il muovere una critica ad una scelta di Miyazaki, in modo pacato ed educato, sia un atto di blasfemia o di arroganza da parte mia.
Probabilmente nemmeno lo stesso Miyazaki ha una opinione così alta di sè da ritenere che tutto quello che crea è assolutamente perfetto e in quanto tale esente da critiche.
Capisco quello che dici: si tratta di una scelta stilistica di 'come rappresentare la finzione'. In dottrina si parla di "quarta parete" del teatro, ovvero quella frapposta tra pubblico e area del palco ove si svolge la rappresentazione. Questa quarta parte invisibile distingue due realtà: la realtà 'interna alla narrazione', dove 'vivono' i personaggi, e la realtà "esterna alla narrazione", dove si trova il pubblico. La quarta parete, ancorché invisibile, opera una sorta di "trasduzione simbolica" tra le due.
Quindi, l'autore può pensare di trascinare il pubblico a contatto con l'ideale "realtà narrativa interna" in vari modi. Può pensare di "mettere simbolicamente i personaggi sul piano degli spettatori", facendogli parlare una lingua contemporanea anche se dal punto di vista dell'interno narrativo non sarebbe logico - certo, è solo un livello di simbolismo.
Oppure può scegliere di mantenere un certo distacco tra narrazione pubblico, per rimarcare una distanza tra i due, un diverso contesto. L'uso di una messa in scena con una lingua "d'epoca" è uno dei modi di questa scelta stilistica, ad esempio. E ce ne sono mille altre.
Per esempio, nel neorealismo (soprattutto il primo momento, direi), la seconda tendenza era molto marcata: il neorealismo veniva dal verismo, e se andavi a vedere "La terra trema" senti dei dialetti stretti da non capirci nulla. In barba alla comunicazione testuale, il regista voleva comunicare una sensazione proprio tramite la straneazione del NON capire, suppongo.
Un regista di questo tipo è Takahata. Lui ama Visconti, il neorealismo, e sin dai tempi di
Hotaru no Haka definì l'animazione come "una specie di surrealismo" - il che è geniale, perché "questa non è una pipa", e per quanto realistica la finzione sia, la finzione non è realtà: è una sua rappresentazione, indi è surrealismo in sé. Difatti con Visconti anche il neorealismo andà a parare lì, verso un'archetipalità delle maschere che era un surrealismo simbolico da tragedia classica, o commedia dell'arte. A mio dire questo comincia con
Rocco e i suo fratelli e Sergio Leone, figlio del Neorealismo, farà
C'era una volta in America allo stesso modo, ma anche i suoi spaghetti Western, in fondo, erano il teatro delle maschere - in un caso sin dal titolo, no?
Miyazaki è molto meno di così, in questo senso. Lui usa questo "finto realismo" a sprazzi, per dare una sensazione. Ashitaka parla antico perché è un Emishi, è il buon selvaggio della preistoria, ma non è mica realismo. E' solo una connotazione. Con
Kaze Tachinu si è *sforzato* di essere più realistico che potesse, e ovviamente ancora non è realismo, ma si è sforzato - e allora hai stranieri che parlano la loro lingua senza essere sottotitolati, hai cartelli in giro con kanji d'epoca (poi eliminati dopo la Seconda Guerra), e hai questi 'intellettuali idealizzati' che parlano un po' all'antica, ma neppure troppo.
Si intenda: tutta questa scelta stilistica può piacere o non piacere a ciascun membro del pubblico. Legittimamente. Tu puoi benissimo riconoscere la libertà di Miyazaki di fare i suoi film come preferisce, ma parimenti non apprezzarli, in ogni comparto: dal disegno, alla storia, a cose di stile come quelle suddette.
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Nota: nella mia teoria, la traduzione, o doppiaggio, è un'ulteriore "quinta parete", ovvero proprio una "quinta trasparente" posta tra la quarta parete e il pubblico (straniero rispetto all'opera). Questa "quinta" filtra e trasduce -in modo schiettamente simbolico- la lingua della finzione originale (nota: che potrebbe già essere simbolicamente filtrata e trasdotta dalla quarta parte!).
La trasduzione della "quinta parete", a mio giudizio, dovrebbe essere più trasparente e "verista" possibile. Nella realtà dei fatti, come dicevamo prima per una scelta registica, si potrebbe trasdurre in modo più o meno "immersivo" della finzione verso il pubblico. Ma il mio punto è che se un regista può liberamente scegliere quale livello di finzione adottare, essendo un autore creatore della sua opera originale, un traduttore/adattatore non ha scelta: l'opera c'è già e lui non ne è l'autore, né sta creando un'altra opera. Indi, un traduttore/adattatore dovrebbe essere obbligato a operare una trasduzione quanto più "vera", quanto più limitata al *solo* contenuto linguistico, mai sconfinante nell'adattamento culturale o peggio "di gusto".
Certo, questo comporta che la fruizione di un'opera straniera tradotta si aggravi intrinsecamente di un velo di difficoltà, innaturalità aggiunta. Ma la reaktà è che un'opera straniera è straniera, che le culture sono diverse, che se si sceglie di fruire un'opera straniera lo si è scelto, non lo ordina il medico, e non si può chiedere che l'opera straniera, ancorché parlare nella nostra lingua -poiché trafdotts- sia pure bastardizzata al gusto all'uso e al consumo della propria cultura. Sarebbe una negazione di realtà pressoché distopica.
Un inganno crudele e dannoso, per l'opera violata, impoverita, e per il pubblico ingannato.
Si ricordi sempre: l'amore per la diversità non è il suo appiattimento, ovvero la vile negazione dell'esistenza della diversità stessa. L'amore per la diversità è il riconoscimento schietto e sincero della sua esistenza, e la sua valorizzazione per interesse e conoscenza reale.
Amare il diverso (xenofilia) non è dire "siamo diversi, ma siamo uguali".
Amare il diverso è dire "siamo diversi e va bene così, anzi mi piace".
Aprite gli occhi: fingere di accettare la diversità mentre surrettiziamente la si nega è la più viscida, schifosa, culturalmente indotta forma di xenofobia.
E' la neolingua orwelliana, davvero: nega l'evidenza e sentiti migliore in questo.
Come quella pubblicità che diceva: "sterilizzare il tuo gatto è un atto d'amore".
E non era 1984 - era la televisione italiana. Davvero.