Non sono il padrone di casa, qui, ma come si vede i frequentatori abituali del forum paiono per lo più ridotti al lumicino. Di mio, posso dirti che mi fa piuttosto piacere leggere un messaggio di critica come i tuo, che ho trovato educato sia nella forma che nei contenuti - in senso sia italiano che inglese, per capirci (?).
Vado dunque a dare risposta alle osservazioni che (mi) proponi, premettendo però che molto di quanto sollevi ha probabilmente avuto sin troppo elaborata contrargomentazione da parte mia nei post precedenti, forse anche in quello subito sopra il tuo, rispetto al quale è datato nel tempo ma non nello spazio. Non posso evitare di chiederti, senza provocazione, se l'hai letto - in ogni caso mi scuso se per certi versi tornerò a ripetermi.
Partendo dagli specifici particolari che mi proponi.
1) Niinii in Kaze Tachinu (Kayo a Jirou)
Invero nel testo del film (audio è scritto) è NiiNii-sama. Nel copione è ニイ兄さま.
Anche io, ai tempi, pensai che fosse probabilmente "solo" un vezzeggiativo infantile "da raddoppiamento" di "(o)ni-sama", soprattutto per la seconda イ dopo il primo ニ. Ma un po' perché sul testo giapponese stampato non si capiva univocamente che quel primo "ni" fosse ニ (katakana) o 二 (kanji, che ovviamente vuol dire due, e che è lo stesso di "jirou") feci la cosa per me più sensata: chiesi direttamente allo Studio Ghibli, con cui mi stavo per altro sentendo per i provini dei doppiatori.
Direi che i dubbi che tu hai espresso nel tuo post c'erano tutti, e tutti argomentati. Chiaramente, non è che io abbia mandato una mail personale a Miyazaki Hayao, ma mi stavo sentendo con lo staff del dipartimento internazionale dello Studio, con cui pure avevo rapporto ormai da una decade abbondante.Btw, a little question for you: young Kayo calls Jirou as "Nii-nii-sama" [ニイ兄さま], right? Is that just derived from the first kanji of the 二郎 name, or is there some other reason? Maybe, a pun to the fact that Jirou is actually "the second child" in the family, and also "the second older brother" to little Kayo?
The tricky thing to me is [ニイ兄さま] sounds like a nickname anyway, due to the 'long' ニイ, which is an extra as for the reading of ニ both as 'two' or '二郎', right? In fact, the added kana 'イ' leads me to think this is Kayo infant (yet still respectful or a bit old-fashioned, for the -sama suffix) way of calling his brother? ^^
La risposta, che non riporterò direttamente per netiquette, fu interessante: mi dissero che anche loro erano rimasti dubbiosi sul fatto, e che per questo avevano già da tempo chiesto direttamente a Miyazaki Hayao, che aveva risposto "lo chiama così perché è Jirou", dal che avevano dedotto che il punto fosse essere il fratello 二 di nome di fatto. Mi sottolinearono che sia il Jirou storico che quello fittizio del film avevano un fratello maggiore (nel film è inserito apposta un rimando al fatto che Jirou prende in prestito il dizionario di inglese di suo fratello maggiore).
Siccome sono puntiglioso E pesante, a scanso di equivoci, ancora chiesi conferma:
Mi risposero: "sì, hai capito correttamente".Indeed both the real Horikoshi Jirou and the fictional one in the movie do have an older brother themselves, yes.
So, basically, Kayo is calling him like "second brother! second brother!", right?
Il che, valendo per me come la più autentica delle interpretazioni che potessi avere, mise un punto ai miei dubbi. E spero abbia fatto altrettanto con i tuoi.
Poi, quanto al discorso di やらせていただきます.
Ho certamente presente quello che dici e spieghi. Di questo discutemmo con la traduttrice (Elisa, che è bimadrelingua italo-giapponese, ha fatto parte delle scuole medie in Giappone, si è poi laureata a Londra in inglese e ha il nihongo noryoku shiken LV1). Questo genere di espressioni idiomatiche sono a dire il vero quelle su cui spesso ragioniamo di più, perché sono quelle in cui una resa "funzionale" verrebbe più naturale, ovvero il valore della funzionalità si massimizza in espressioni molto idiomatiche. Eppure, per esempio, anche su un banale "oyasuminasai" si può dire che "buon riposo" sia più fedele di "buona notte", giusto? Nel caso di やらせていただきます il senso funzionale è sicuramente "accetto quanto mi state proponendo di farmi fare", certo. D'altro canto, seppure nella logica della cortesia, sia il semplice "itadakimasu" ma anche l'uso del causativo yara(sa)sete apportano un senso di concessione, di privilegio, nel senso di "essere lieto di ricevere qualcosa che vi viene permesso".
Ci sono molti approfondimenti monolinguistici sull'ambiguità di simili espressioni, per esempio:
https://mayonez.jp/topic/5387
Col che, l'adattamento (che è un adattamento, certo) a cui pervenni mi parve il migliore anche nell'ambiguità del personaggio, che è il tipo di persona formalmente cortese, ma realmente molto "a modo suo", egoista e anticonformisa - il tipico otaku di vecchissima generazione! Questa è una nota mia, si capisce, ma sulla personalità di Jirou si discusse molto, anche per la resa recitativa. Paradigmatica, in questo senso, la battuta che lui pronuncia quando prende sulle spalle la tata della loli-Nahoko, in cui non c'è misoginia o disprezzo per lei, ma solo insofferenza verso la bestialità ingegneristica da lei pronunziata: le locomotive non esplodono! (e qui ci fu tutto un piccolo studio sul diverso uso tra esplodere e scoppiare, sì).
Dunque, queste sono le risposte per le questioni puntuali che sollevavi.
Venendo al generale, e qui rischio di ripetermi, come dicevo.
In primis, ribadisco che io non sono il traduttore di alcun film dello Studio Ghibli da me lavorato. Nella maggior parte sono stati tutti tradotti dalla citata Elisa Sato Nardoni, che considero la traduttrice d'eccezione (in tutti i sensi) con cui ho collaborato nel corso di quasi 25 anni ormai di lavoro (non solo su Ghibli). Siccome sono il tipo di persona che cerca di capire fino in fondo, il nostro rapporto non è mai stato "consegnami la traduzione, poi faccio io". In genere già la sento ogni qual volta durante la stesura dell'adattamento ho un dubbio di interpretazione, e poi a adattamento concluso rivediamo insieme tutte le incertezze o i dubbi. Questa è la pratica che seguo con ogni traduttore, ma si capisce che con una persona come Elisa diventa particolarmente arricchente per me. Il mio interesse linguistico e filologico esiste a prescindere dal solo giapponese, ma proprio in una lingua come quella giapponese diventa forse un percorso di autoapprendimento? Sicuramente, su alcuni idiomi specifici o su alcune finezze, è capitato che io stesso abbia fornito degli input al traduttore con cui collaboravo. E' il caso dell'idioma "sumeba-miyako", ad esempio, che compare all'inizio di Chihiro & Sen (e di mio non conoscevo dapprima l'equivalente italiano "a ogni uccello il suo nido è bello"), o ancora delle cosine in Kurenai no Buta, e altre che ricorderei ripensandoci puntualmente, ma non credo sia il caso, no?
Le difficoltà sui film di Miyazaki sono legate soprattutto al fatto che lui fa un uso del tutto personale, fantasioso e autolegittimato della lingua giapponese. Il paradigma, in questo senso, è Mononoke Hime, dove ci sono cose del tutto fantasizzate (il villaggio Emishi, i jibarashi, i kodama a quel modo, l'uso di "shishi" come lettura antica di "shika" in shishigami, e ancora altre - fino all'uso di un kanji che in giapponese si considera inesistente). Al contrario, la difficoltà maggiore nei film di Takahata è la profonda cifra stilistica culturale dei suoi testi. Takahata è un artista imperialista del linguaggio tanto quanto Miyazaki, ma secondo strade diverse. Chi ha visto lo speciale sopratutto di Yamada-kun forse se ne sarà accorto. Ma del resto, anche in un film "per bimbi" come Ponyo non è che Miyazaki Hayao si sia guardato da inserire una battuta con arcaismi presi di peso da Natsume Souseki (Io sono un gatto, nel caso), dove troviamo l'arcaismo "geni inferiori" (rettou-inshi) in lugo del moderno "geni recessivi" (ressei-inshi). Ci sono sempre cosette così.
Quindi boh, sì, suppongo che dopo un tot di anni anche io avessi sviluppato una certa comprensione della lingua giapponese. Lo parlo, quando vado in Giappone. Mi capita anche di pensare in giapponese, come a volte penso in inglese (oh, Joyce!), a seconda del "tipo di pensiero", ho notato. Ma non mi sono mai condotto a considerarmi sufficientemente competente per tradurre un film, no. Neppure uno special di un film, no.
Quindi, sulla mia visione dell'italiano come lingua d'arrivo di una traduzione.
Sulla traduzione, tutto al contrario di quel che sono nell'ambito dei miei interessi dilettuosi (delittuosi? - ah, le sciarade della vita!) quaki filosofia, psicologia, e sociologia, o storia dell'arte, sono molto "oggettivante" ed "essenzialista" ancor più che "scientifico". La linguistica è senz'altro l'ambito dove ho studiato di più, e non intendo citare studiosi francesi o principi russi, quanto andare al cuore dei significati delle parole stesse. Uno dei miei detti è "tutto è semantica". Ammetto che il mio essenzialismo della parola è ormai giunto a livelli quasi trascendentali, ho elaborato una mia "seria" (ahahah) teoria di rilettura platonica e puranco biblica (antico testamento) in detta ottica, che qui ti risparmierò. Mi basti dire: in principio era il verbo, il verbo è l'idea ovvero l'ordine del mondo che l'uomo rappresenta dandogli nome - cosmos - pulcher - mundus. Hai mai notato in quante lingue bello, pulito e ordinato siano lo stesso concetto? O come igiene e sanità siano lo stesso concetto? O come disordine e disturbo siano lo stesso concetto?
Ma tornando seri e tornando a noi, secondo me il punto cruciale è l'ordine ontologico del compito comunicativo della traduzione. Mi pare che la questione sfugga ai più, e mi pare assurdo, ma tant'è. Ovvero, l'efficacia comunicativa, secondo me, prima del "come" deve appuntarsi sul "cosa" si comunica. Il "funzionalismo" della traduzione è o un inganno, oppure è mal interpretato.
Ora ti farò dunque un esempio concreto per dare sostanza reale a quanto predico.
Alessandro Bencivenni. Una persona squisita. Aveva scritto un libro su Miyazaki Hayao che toccai con lo sdegno che è mio tipico. Lo trovai gravido di errori e pieno di sincerità. Mi colpì per questo. Davvero, oltre a essere scritto squisitamente bene (ed è tanto, oggi), traboccava di genuinità ed era scevro tanto dalla spocchia del finto conoscitore della materia specifica, tanto dalla presunzione dell'esperto di cinema. Che meraviglia, in questo! Mi procurai (tramite una conoscenza comune) il contatto telefonico di Bencivenni e lo chiamai senza alcun preavviso: "Ciao, non mi conosci, sono Tal dei Tali, hai scritto un libro bello e genuino ma tutto sbagliato, vogliamo correggerlo?". E lui mi ha risposto "Sì", e l'abbiamo fatto.
A parte che l'ho "obbligato" a scrivere tutti i nomi con ordine giapponese (con una questione morale), una cosa che mi fece piangere è che il libro era pieno di onesti fraintendimenti causati dalle traduzioni errate dei copioni. Esempio: la visione di pre-morte di Nausicaä, che si vede bimba nella colonna dei defunti, suoi genitori in testa, e dice "no, non voglio andare lì!" - nella versione RAI diceva: "No, non voglio venire con voi", dal che Bencivenni aveva desunto e elaborato che per il regista ci fosse un'associazione tra la generazione genitoriale e la morte. Mi dispiacque così tanto che una persona intelligente e interessata, Bencivenni, fosse stata letteralmente ingannata più che fuorviata dalla superficialità di una traduzione. Per me è inaccettabile. Nella traduzione io sento una seria, seria responsabilità comunicativa, altroché.
E ho fatto un esempio piccino piccino, veri? Pensa a cose come Mononoke, o Chihiro e Sen.
Ma vale anche per me. Il testo, la correttezza del testo, è presupposto imprescindibile alla comprensione del messaggio di ogni opera, e in questo senso prova solo leggere le sorti di un mia "visione troppo polarizzata2 (per dire poco) di un dialogo di Kaguya, di cui dicevo e spiegavo in altro thread.
In secundis, c'è poi un altro mio punto che credo valga sempre e pure ti ripropongo, ovvero quando si parla si "percezione" della lingua è davvero difficile dire seriamente cose come "tutti lo capiscono" o "non lo dice nessuno". Rilevamenti statistici degli usi linguistici non ce ne sono. E guarda che sì, io sono di quelli che sanno usare la ricerca di google "con le virgolette", ma sono sempre risultati numerici drogati. In vent'anni e più di esperienza ho visto diatribe in cui una mia espressione, messa in un copione, veniva criticata da taluni come "non lo dice nessuno" e c'erano altri che riportavano "da me lo dicono tutti". Letteralmente, eh. Sulle pagine di questo stesso forum, anche. Le variazioni diatopiche degli usi linguistici, specie all'interno delle variazioni diamesica "parlata" e diafasiche "colloquiale, gergale, familiare", sono davvero infinite e sempre sottovalutate. Non esiste davvero "l'italiano sub-standard", è un'invenzione formale accademica più ancora che lingua indoeuropea. Potrei davvero farti decine, centinaia di esempi reali raccolti in una "carriera" più che ventennale.
Il discorso dell'usualità della lingua è davvero viziato, spesso insensato, perché sempre presuntivo. Ogni persona si sente portatrice della "norma linguistica" della sua madrelingua, ed è insensato. Perché ciascuno di noi ha vissuto solo una vita, e ha visto e sentito solo una fettina di una gamma di variazioni. Quindi, di mio mi rifaccio sempre ai dizionari. Se Yreccani mi dice che "perituro" è arcaico e letterariao e "imperituro" no, fine della storia. Io per uno non valgo niente, come ogni "uno". Hai presente "uno vale uno"? Io, in questo ambito, aggiungo: "e quindi niente".
Quindi, se parliamo della mia logica di traduzione, per paradosso la mia visione "personale" della lingua è proprio la sua assoluta "spersonalizzazione". Ovvero, per me c'è solo il testo originale, in ogni suo più fine contenuto e sfumatura, e la lingua d'arrivo della traduzione, nella sua obiettiva, oggettiva realtà - spogliata da qualsiasi presunzione di "strandardizzazione" sussunta dall'esperienza comunque statisticamente irrilevante di una vita individuale, quella del traduttore (me). Mi baso solo sul testo dell'originale e sul testo dei dizionari.
Se poi parliamo della "stranezza" o "stranianza" del testo che può risultarne, allora:
1) ti prego di riferirti al post sopra al tuo per l'argomentazione sulla reale italianità dell'uso di dislocazioni e segmentazioni nella variazione diamesica "parlata" e diafasica "colloquiale" dell'italiano. E su come la disabitudine a una lingua dialogica "reale" nei prodotti di intrattenimento sia al contrario il frutto dell'uso didascalico della lingua del doppiaggio italiano.
2) non mi stuferò mai di ribadire che il nocciolo della questione reale sta in quelle che si intendono le finalità, da cui i modi e le maniere, della traduzione. Per come la vedo io, la traduzione non deve ingannare che un'opera straniera sia men che straniera. Ancora una volta, la semantica e l'etimologia ci dicono tutto: STRANiera. Il diverso è diverso. Non si più, infingardamente, ricondurre il diverso al proprio. Non è mediazione culturale questa, è abbattimento culturale. E' sottomissione dell'alia la sé, ed è colonialismo culturale implicito. Sicuramente la mia mentalità è integralista, ortodossa e radicale — ma la logica di base è limpida. Una cosa giapponese è Giappone, come una cosa francese è Francia. Si traduce la lingua, come mero mezzo o tramite, in cui quelle culture si esprimono. Ma quelle culture devono restare loro stesse, solo espresse nella nostra lingua "per falso di servizio". Il risultato sarà comunque un mostro, certo, ma almeno, se persegue lo scopo genuino e buono della diffusione culturale *per quello che una cultura è in sé stessa*, c'è un fine comunque nobile. L'unico che possa, a mio dire e pensare, giustificare una cosa turpe e violenta come la traduzione. Senza questo fine, senza questa pratica, la traduzione è per me ingiustificabile e sinanco priva di raison d'etre in assoluto.
E dunque, quali sono i limiti dell'accettabilità di questa (sempre presunta e soggettiva) "straniante stranezza" di una "lingua tradotta", dici?
Beh, il limite, per me, è quello della chiarezza intesa come univocità di intendimento. Voglio dire, anche concordando che "in Italia NESSUNO chiama suo fratello maggiore come "fratellone"..." (e ancora non concordo con quel NESSUNO, ma tant'è), il punto è che usando FRATELLONE non è che si possa capire altro che quello che è, realisticamente. Anche perché le opere audiovisive sono alquanto aiutate dall'autoesplicazione di scena e recitazione. Quindi, ok: sono giapponesi, dicono cose "strane" ma il cui significato è chiaro - per chi abbia il cervello acceso. Tanto basta, anzi è l'ideale. Chi vuole, impari che i giapponesi non sono italiani, ovvio, che gli Yamada non sono i Cesaroni, ovvio, e semmai proprio a questo servirà fruire intrattenimento straniero. Chi non vuole applicarsi neppure questo minimo, beh... chi se ne importa? Io no, no di certo.
Sempre per capirci, io saluto regolarmente dicendo "le auguro un buon giorno!" - come ho fatto dire a Kiki. Mi hanno detto "non lo dice nessuno!", e concordo che sia un costrutto forse poco usuale, ma sai cosa? Quando saluto dicendo "le auguro un buongiorno", nessuno mi ha mai mandato a quel paese in risposta. In genere mi dicono "anche a lei!". Penseranno forse "che strano 'sto tizio" - io sono italiano - ma la comunicazione si dimostra efficace abbastanza. Quindi? Non è necessario far parlare dei personaggi giapponesi "come degli italiani", anzi è follia nefasta e controproducente. Bisogna solo farli parlare "in italiano". Anch'essa una lingua "dentro alla quale tutto si regge", e finché si regge, regge - oh, Ferdinando mio!
Dunque, tra l'intento culturalizzante e onesto della traduzione linguistica, e la disonestà della pigrizia mentale e il lassismo frivolo del tradimento culturale, tu cosa scegli? Davvero, cosa sceglieresti mai?
Dico così perché queste sono le mie idee che ho PRATICATO nel mio lavoro, non le ho scritte su un saggio o su un libro. Ma forse, dietro la mia pratica professionale, c'era più riflessione e convinzione che dietro certi libri accademici.
E queste visioni, nella pratica, sono anche andate affinandosi. A tal proposito, prova a dare un occhio onesto a questo messaggio e thread da me principiato:
viewtopic.php?f=21&t=3672&p=72376
Nota come io argomenti citando di testi precisi.
E infine, per quanto riguarda la questione della risposta "del pubblico", che dire? Credo sia fisiologico che le persone che vogliono capire qualcosa siano sempre la minoranza. Capire costa fatica, sforzo persino. Le perosne sono prigre e quando non lo sono da principio spesso si impigriscono lungo la via, come credo ben si evinca dal topic che ti ho appena linkato. Ma non si può sacrificare la minoranza volenterosa e interessata per la maggioranza indolente e svogliata. Anche perché la seconda è perduta comunque, non ha speranza.
Hai presente Eboshi? "Alle donne [il pubblico] è stata fornita tutta la preparazione possibile. Ognuno si salva da sé"
Davvero anche io la penso in questo modo, e lo pratico, oltre che pensarlo.
Sempre in divenire, eh!
E' perché sono molto convinto delle mie posizioni, che sono molto ragionate, che ho il coraggio di discuterle realmente, sempre assumendomi il rischio di DOVERLE CAMBIARE qualora riprovato in torno. Per me il dialogo è questo: sciogliere un'antinomia. Come nella dissertazione filosofica francese. non è che si possa avere tutti ragione contemporaneamente dicendo cose opposte, no. Evidentemente qualcuno ha torto. Ma quel qualcuno potrei essere io, in toto o in parte, indi se discuto è per mettere alla prova con gli altri e con me stesso quello in cui credo. A rischio di doverlo destabilizzare, sì.