Piano piano, con un mese di ritardo, arrivo a commentare questo film. Arriverò anche a Porco Rosso e agli altri, ma per ora, visto il gentile invito e vista l'importanza da me accordata al film, che considero quello che più mi è piaciuto in tutta la rassegna del Festival del Cinema di Roma, inizio appunto da qui.Shito ha scritto: Attendo inoltre un post di Im-Edith in questo thread.
Innanzitutto trovo la traduzione letterale del titolo “Ricordi a goccioloni” molto più significativa ed evocativa della infedelissima trasposizione inglese “Only yesterday”: perché banalizzare un titolo che è invece ricco di fascino, di originalità e che rispecchia perfettamente, in maniera metaforica ovviamente, il dispiegarsi della trama? Il filo conduttore è quello della protagonista che si ritrova, nel suo viaggio di vacanza, a ricordare e rivivere la se stessa delle elementari in tanti episodi più o meno significativi della sua infanzia. Il viaggio è la madeleine che risveglia una pioggia improvvisa di ricordi sopiti, ognuno dei quali è "un gocciolone", appunto, che bagna la protagonista volente o nolente: le scivola addosso, la inonda di sensazioni ancora vive, ancora attuali, ancora significative, e poi passa via veloce, lasciandola lì traballante d'emozione e già raggiunta da un altro gocciolone. Non è la solita trama lineare, il passato che si ricostruisce "goccia dopo goccia" seguendo il filo cronologico della crescita, no, sono proprio goccioloni pescati a caso da un'unica se stessa di 10 anni. Non sono una specialista del settore, ma se volessi rendere l'idea di come si dispiega la trama in maniera figurativa, questi ricordi non potrebbero costituirsi né come scala che porta verso una meta in divenire, né come puzzle che necessita di tutti i pezzi insieme incastrati a perfezione secondo un ordine prestabilito per avere senso: è piuttosto un mosaico, in cui ogni tessera è bella e colorata per conto proprio, sagomata in quadratini che si possono affiancare in qualsiasi maniera senza combinazioni prestabilite per dare vita a un insieme di bell'effetto, non per forza di senso compiuto. Non ricostruzione di un puzzle previsto, insomma, ma costruzione tutta nuova di un bel disegno inaspettato. La protagonista non è il risultato e il punto di arrivo di una serie di episodi che ne hanno influenzato il carettere in un rapporto di causa ed effetto (che tanto amano gli psicologi occidentali e le autrici di certi shojo). Il suo passato non ci viene presentato dal regista per capire come e perché è diventata ciò che è. Qui funziona tutto al contrario: i ricordi sono il punto di partenza per una ri-costruzione volontaria e consapevole di ciò che lei vuole essere e vuole diventare. Il passato non è nostalgia passiva (hanno la stessa radice queste due parole, passato e passivo?) ma energia attiva. E' lei che disegna il proprio mosaico stabilendo dove piazzare le tessere una volta che il gocciolone ne ha portato alla luce una. Il passato non è vincolo o condanna, ma nuova opportunità per indagare se stessa.
Il ritratto che fa Takahata di questa ragazza una volta bambina, è realistico e sincero. Lei è una ragazza come potrebbe esserlo chiunque, una ragazza del tutto incapace di incarnare i valori sinceri e incorruttibili delle eroine miyazakiane, una ragazza normale con i suoi pregi e i suoi difetti, con una storia che non ha nulla di eclatante, composta da piccoli episodi di vita fra i più banali (come la grande aspettativa per un frutto mai gustato prima o il capriccio per avere un oggetto nuovo). Una persona reale, inserita in un contesto veritiero, che soffre, gioisce e ricorda come ciascuno di noi, e prova paure che non sarà né la prima né l'ultima a sentire. Una bambina e poi una donna con i suoi lati lucenti e i suoi lati oscuri, con i suoi aspetti dolci e quelli detestabili. La perfezione dei protagonisti dei mondi di Miyazaki è qui molto lontana, e di magico o fantastico non c’è assolutamente nulla se non l’atmosfera da “fiato sospeso” che il regista riesce a creare. Ma come farlo con tante… banalità? A leggere una trama così semplice, senza colpi di scena, mostri, misteri o inseguimenti, parrebbe tutto piatto e noioso. La quotidianità, solitamente, non si addice alle storie da raccontare. Si racconta qualcosa di eclatante, normalmente, di molto drammatico o di molto comico, minacce alla terra, amori impossibili, grandi scontri, malattie, sorprendenti arti magiche, mondi fantastici, animali parlanti… Ma come fa invece Takahata a tenere sempre desta l’attenzione, a far scorrere i minuti velocemente, a trattenere i nostri occhi incollati alla pellicola e desiderosi di goderne ancora per ben 2 lunghe ore?
Se c’è un aspetto di questo film e del suo regista che mi ha affascinata, è proprio la capacità di trasformare la quotidianità in evento cinematografico. In tanti possono essere capaci di creare storie fantastiche di grande suspance. Ma soltanto dei veri maestri, a mio avviso, sono in grado di trasformare il reale, l’abituale e quindi quasi banale o scontato, in elemento di attrazione. Takahata lo fa in questa pellicola con grande maestria, sublimando in atmosfere significative anche l’episodio in apparenza più trascurabile. Certo l’attenzione per i piccoli particolari, la cura nel disegno, nell’animazione e l’uso attento delle musiche per sottolineare e costruire anche sonoramente i momenti, non solo per accompagnarli, giocano un ruolo fondamentale nella riuscita del film. Non nascondo che ad alcuni potrà sembrare più lento, anche un po’ troppo, se sono abituati al cinema d’azione in cui deve per forza succedere qualcosa, un colpo di scena, una grande svolta finale. Ma per chi come me ama le cose semplici, persone a cui piace gustare i dettagli e assaporare i secondi su cui la cinepresa indugia un po’ di più, e che considera le espressioni (anche se di cartone animato) rappresentative quanto e anche più delle parole, un film come questo non può far altro che deliziare. La visione diventa un vero solluchero di sensazioni, di brividi, di sorrisi, in un coinvolgimento totale della parte più delicata e sensibile dello spirito. La conclusione, contaminata da una metafora visiva geniale e azzeccatissima, è il giusto coronamento di un’opera di grande spessore, a livello narrativo, strutturale e intellettuale.
Miyazaki possiede la capacità di far uscire i suoi film dallo schermo, facendo in modo che i suoi personaggi e le sue storie ci vengano incontro stimolando il lato forse più infantile e ingenuo di noi e carpendo così la nostra meraviglia. Miyazaki stupisce, strattona, rapisce. Takahata, all’opposto, ha l’abilità di prendere lo spettatore e portarlo dentro allo schermo, dentro al suo film, perché dipinge un mondo talmente reale che uno qualunque fra noi potrebbe esserne protagonista. Non suscita meraviglia, ma immedesimazione e forte empatia e così riesce a farci sospirare, mettere in ansia o rasserenarci fianco a fianco con i suoi personaggi. Takahata abbraccia, culla, accompagna. In questo caso, poi, Takahata sprigiona un’energia di vita sorprendente, una volontà di vivere, mettersi in gioco e affrontare se stessi e le proprie paure che lascia un messaggio forte e positivo allo spettatore. Bisogna affrontarsi a un certo punto, ci dice il regista, non si può fuggire in eterno da sé, dalle proprie responsabilità e dal proprio passato, perché è una fuga inutile che prima o poi dovrà finire e che non porta da nessuna parte. Non è incredibile trovare tutto questo in una storia che ci parla di piccoli episodi quotidiani accaduti a una bambina di 10 anni? Non sarebbe incredibile trovare tutto questo nelle nostre storie fatte di piccoli episodi quotidiani che ci accadono ogni giorno?
Homo faber fortunae suae.
Sono consapevole, ovviamente, che in questo mio resoconto sono infinitamente di parte. Il film di Takahata l’ho sentito molto mio e molto vicino anche per i temi trattati. Il percorso della protagonista riprende molto il percorso di vita che ho fatto io da un anno a questa parte (ma non ero così capricciosa da piccola ve lo assicuro, ero un angioletto ). Sembrava pennellato sulla mia figura, ed era calzante anche il momento in cui ho avuto il piacere di vederlo, dico calzante rispetto al mio personale cammino.
Dunque, forse ho risentito oltremodo di questa immedesimazione che vado decantando nella mia recensione. Ma tant’è, queste sono le mie impressioni, e poiché si è fatto tardissimo è ora che il mio cervello si spenga (o forse si era spento già da metà recensione in poi?)
Ancora un grazie, a distanza di un mese, a chi ha condiviso con me la visione e i commenti sul film