Capitan Tsubasa, manga celebrato e ricordato, è a mio avviso uno dei peggiori fumetti che mai siano stati dedicati ad uno sport.
Tralascio le osservazioni sullo stile di disegno di Takahashi che può piacere o non piacere (a me non ha mai convinto) per parlare del pessimo messaggio educativo e sportivo che trasmette. Sinceramente penso che chi ha potuto progettare o sceneggiare una storia del simile del calcio (e dello sport di squadra in generale) ha capito ben poco.
Il manga (e ancor di più l'anime, che ne esaspera alcuni aspetti) verte essenzialmente sull'aspetto spettacolare delle partite, sull'esasperazione delle movenze, dei dribbling e dei virtuosismi: tutti espedienti che conducono ai tiri che spaccano mani e reti ed al famosissimo campo dove la porta avversaria è oltre l'orizzonte e dove il campione di turno dribbla Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Pelé, Causio, Tardelli, Napoleone e Jeeg Robot prima di tirare in porta.
Le partite, tutte abbastanza ripetitive, sono incentrate sul virtuosismo del singolo asso che si "beve" miriadi di sfigatissimi terzini avversari (ma quanti sono?), mentre i compagni gli corrono ansando al fianco, nella speranza (vana) di ricevere un passaggio.
Questo può per certi versi essere dettato dalla politica editoriale di Shonen Jump (la rivista su cui è stato pubblicato dall'82 al '97) e delle altre riviste giapponesi. Partendo dall’assunto che quella nipponica è una società dove il singolo è spesso annichilito dalla folla, dalla rigida gerarchia sociale, scolastica e lavorativa, le riviste giovanili puntano ad esaltare le gesta di un singolo protagonista che si dimostra in grado di superare tutte le difficoltà, di migliorare se stesso per arrivare al trionfo finale, sia esso contro il nemico che vuole conquistare la Terra o contro l’avversario nello sport. Questa costante, da Mazinga Z a Dragon Ball, permette ai giovani giapponesi di identificarsi in un modello forte.
Sennonché questa logica difficilmente si può applicare al calcio. Al di là della giocata del campione che in alcuni casi può risolvere le sorti di una partita – ed è magari il gesto che rimane più a lungo negli occhi e nella memoria – il calcio è uno sport profondamente di squadra, dove in molti debbono porsi al servizio della stessa causa. La storia, credo, ricorda molte più vittorie di squadre di anonimi sgobboni piuttosto che di squadre scarse illuminate da un unico campione. Gli stessi Pelé, Rivera, Cruyff, Beckenbauer, Mazzola, Maradona hanno vinto quando potevano disporre di gregari all’altezza.
In più, da animatore sociale quale sono stato a lungo e quale mi piace pensarmi ancora, ho trovato alcune pagine di “Tsubasa” profondamente diseducative. Ricordo con orrore, in uno dei primi numeri (poi ho smesso di leggerlo!) che il padre di Tsubasa si presentava in panchina e l’allenatore – poiché era il genitore del “fuoriclasse”– invece di cacciarlo con ignominia lo faceva accomodare, a fare il
mister aggiunto. A un certo punto, durante la classica azione nella quale il campioncino partiva da casa sua per andare a segnare in Corea, il padre si levava in piedi urlando: “Se non segni non sono più tuo padre”. Eeeeeeehhhhhhh?!

Mai sentito niente di più deleterio dal punto di vista educativo.