Archivio Autore
Festival di Chiavari (24 e 25 Settembre 2004)
LA PARTENZA
L’avventura comincia all’alba, il nostro treno parte alle 5.20 a.m. dalla stazione di Rovato (…inutile dire che lo stavamo perdendo…). Affronto il viaggio col mio ragazzo, Paolo.
Il viaggio (con cambio a Milano) dura circa quattro ore e mezza, e, nonostante i tipici ritardi delle Ferrovie Italiane, giungiamo sani e salvi a Chiavari, piccola cittadina ligure. Il nostro albergo vicino alla stazione ci garantirà durante la notte il dolce suono dei treni di passaggio…
Abbandonati i bagagli in camera, ci rechiamo all’area stampa dove la gentilissima Carla (che ringrazio per la pazienza e la disponibilità) ci accoglie e ci consegna i magici pass che per i due giorni successivi saranno parte integrante del nostro abbigliamento.
Ore 11.00 PRESENTAZIONE DEL LIBRO “SILHOUETTES”
A causa dei ritardi cui facevo riferimento prima, abbiamo perso la proiezione di “Hohokekyo Tonari no Yamada-kun”…poco male, poiché abbiamo partecipato alla presentazione del libro “Silhouette” di Pierre Jouvanceau (edito da “Le Mani”, Recco) con la presenza in sala dell’autore e del maestro Michel Ocelot che, come “piccola” sorpresa, ha portato con sé le sue famose silhouette utilizzate per il film “Principi e principesse”; in questo modo ho avuto la straordinaria occasione di toccare con mano questi mitici pezzettini di carta nera curati minuziosamente sin nei minimi dettagli (i pizzi hanno dell’incredibile!).
Ore 14.00 TAKAHATA INCONTRA IL PUBBLICO
Il momento clou della giornata arriva alle 14, orario fissato per l’incontro di Takahata col pubblico (con il classico, e italianissimo, ritardo di una quindicina di minuti).
Vedo il maestro con la moglie prima dell’ingresso in sala (l’incontro si svolgerà nell’auditorium San Francesco), presto abbordato da alcuni giornalisti giapponesi per scambiare due chiacchiere “in lingua”. Alcuni fan tentano un approccio ma ormai è tardi, si entra!
Il maestro, dopo aver salutato e ringraziato i presenti, inizia col precisare che lui tiene a salvaguardare le menti dei suoi spettatori, soprattutto per salvaguardare la salute mentale dei più piccoli utilizzando l’animazione come mezzo per fare cinema e, continua, come unico mezzo possibile per sviluppare le sue idee in quanto le sue opere si inseriscono nell’ottica del manga, non inteso come fumetto giapponese, bensì come rappresentazione realistica del quotidiano tramite stilizzazioni.
Al maestro viene chiesto come riesca a conciliare la sua attività di autore di film d’animazione con quella, più recentemente intrapresa, di cineasta (Takahata ha pubblicato alcuni saggi contenenti riflessioni sul cinema del Sol Levante). Takahata risponde dicendo che non separa il suo lavoro di creativo da quello di critico, e continua facendo una panoramica generale riguardo il mercato cinematografico giapponese ponendo l’accento su come le radici culturali e le tecniche rappresentative che stanno alla base sia di film d’animazione che di film con attori sia comune, rifacendosi ai manga ed alle tradizioni giapponesi.
Il campo si restringe e si parla della collocazione dei film del maestro all’interno del panorama cinematografico giapponese, la risposta risulta particolarmente interessante: “Il mio non è un lavoro d’autore, il mio è un lavoro da regista” sono le prime parole di Takahata che ci spiega come le sue opere siano il risultato di un lavoro svolto da un’équipe al fine di raggiungere il più ampio pubblico possibile ma, ci tiene a precisare, non necessariamente un film “d’autore” è migliore di un film che non lo è. Conclude con una riflessione riguardo Miyazaki: questi non si definisce “Autore”, ma secondo il collega dovrebbe farlo. Non aggiunge altro per spiegare la sua ultima affermazione che rimane quindi molto vaga e, soprattutto, di libera interpretazione; credo comunque, data l’espressione del viso, che si trattasse di una semplice considerazione riguardo alle scelte effettuate ed il metodo di lavorazione intrapreso da Miyazaki: non negativa, non positiva.
Grazie ad una domanda riguardo al realismo di “Una tomba per le lucciole” il discorso si sposta verso il cinema italiano degli anni ’60 – ’70 che, a quanto il sensei dice, è stato molto apprezzato dalla sua generazione (classe 1935) partendo dal neorealismo, senza disdegnare i film di don Camillo ed il carosello napoletano. L’attenzione è rivolta poi alle tecniche di rappresentazione: la grafica 3D non è adatta alla rappresentazione della vita di tutti i giorni ed il foto-realismo cui ci si sta avvicinando non è necessario per ottenere il realismo narrativo, basato sulla descrizione più che sulla somiglianza estetica con la realtà.
Il maestro si sente molto onorato quando viene paragonato a Ozu Yasuhiro con il quale, dice, condivide la medesima linea d’ispirazione. Yasuhiro, ci spiega, si rifà all’iconografia classica giapponese per quel che riguarda le inquadrature che sono sempre o completamente frontali o perfettamente di profilo, cosa alquanto affascinante e, se ci pensiamo, anacronistica.
Sotto stimolo di un giornalista, Takahata rivela la sua amicizia, più personale che artistica (Takahata scrive e comprende il francese alla perfezione, pur non parlandolo), con il canadese Frédéric Back, che risale ai primi anni ’80, quando a Los Angeles vede “Crac” (oscar 1982) e ne rimane impressionato. Incontrerà l’autore canadese poco dopo durante la registrazione di un programma televisivo del quale i due erano ospiti.
Ascolto con piacevole interesse la considerazione che ha il maestro per i prodotti destinati alla televisione e per il mezzo mediatico stesso: spiega che in una serie lunga come “Heidi” autore e spettatori hanno la possibilità di “costeggiare” i personaggi avvicinandoli pian piano, cosa che in un lungometraggio di due ore risulta più difficile proprio a causa dei tempi ridotti. Se sul piano “artistico” Takahata preferisce le lunghe serie, dal punto di vista economico non può che riconoscere che i budget dedicati ai film permettono di effettuare animazioni più complesse e scene maggiormente spettacolari.
Continuando col discorso delle serie il maestro spiega il filo conduttore che lega tutte le sue opere: la distanza dai personaggi che ci permette, proprio tramite l’obiettività degli eventi, di immedesimarci col personaggio stesso (…e qui, Soul, ho pensato a te …).
Lo spettatore giapponese (come quello italiano, d’altra parte) ama essere emozionato ma, mentre ciò avviene facilmente con gli attori in carne ed ossa, risulta più difficile per quel che riguarda l’animazione: i personaggi sono palesemente irreali. La realtà rappresentata non deve essere perciò costituita da sensazioni preconfezionate ma solo ed esclusivamente da avvenimenti in modo da permettere allo spettatore di elaborare le proprie sensazioni in base al proprio vissuto ed alla propria personalità. Per quel che riguarda la tristezza, continua, è “facile” strappare una lacrima, è molto più difficile rappresentare la comicità, per questa infatti è necessario il distacco dai personaggi ottenuto tramite una regia semplice ed obiettiva. Le serie di oggi, termina il maestro, puntano troppo sull’emotività, proprio per questo mancano spesso di comicità.
Il discorso verge ora sulla caratterizzazione dei personaggi, partendo dal sesso degli stessi: è stato dato maggiore spazio alle figure femminili perché le giapponesi fino pochi anni fa avevano molta meno libertà di adesso, ma il regista ha cercato di mettere sullo stesso piano personaggi maschili e femminili. Nel libro di Johanna Spyri “Heidi”, ad esempio, Peter è descritto come un ragazzino stupido e buffo, mentre nel cartoon il personaggio è stato rivalutato ed ha un rapporto paritetico con la protagonista. Per quanto riguarda invece la scelta dell’età dei suoi personaggi Takahata si è fatto influenzare, oltre che dalla maggiore espressività dei ragazzini, dalla sua cultura: infatti, spiega, in Giappone esistono molte leggende aventi bambini dai poteri superiori a quelli degli adulti come protagonisti.
Si arriva quindi ad un argomento piuttosto scottante come quello degli adattamenti dei dialoghi per l’estero. Il maestro mostra un mezzo sorriso sarcastico e spiega che, una volta usciti dal Giappone i film escono dalla giurisdizione dei produttori prendendo le strade più disparate; anni fa, racconta, gli capitò di vedere a Perugia una proiezione di “Serohiki no Goshu” con i sottotitoli che, non solo non rispettavano i dialoghi originali, ma addirittura li contraddicevano! Proprio grazie a questa esperienza ora lo Studio Ghibli cercadi controllare ogni fase di lavorazione dei propri prodotti all’estero (ma è davvero così?…).
Arriviamo così alla “mia” domanda, in realtà presa in prestito dal caro Howl (ragazzi, ci vedevo doppio…stavo per svenire sul palco). Takahata crede che la musica sia una parte molto importante del film e quindi si occupa personalmente della scelta dei brani che, nel suo caso, sono spesso brani preesistenti e si ritiene fortunato in quanto ha sempre avuto la possibilità di decidere con quali compositori collaborare, senza limitazioni di alcun genere. Il maestro aggiunge poi che non sempre è così e che esistono un’infinità di vie battute dai diversi registi.
Riguardo alla partecipazione a “Fuyu no hi” (Giorni d’inverno), Takahata rivela il suo entusiasmo e la sua ammirazione nei confronti di Kawamoto per aver avviato e coordinato un opera così intrepida e difficoltosa anche a causa dell’incongruenza dei versi della poesia giapponese, difficilmente comprensibile dagli occidentali (e qui confermo: all’inizio non avevo capito nulla…) e dalle nuove generazioni.
Come nella migliore delle tradizioni l’incontro si chiude con i progetti per il futuro: non essendo più nel fiore degli anni (69 anni, anche se non dimostrati, sono tantini) il nostro caro maestro sente di non avere le energie di una volta e inoltre, non effettuando lui stesso i disegni per i film ma solo gli schizzi, ha bisogno di trovare qualcuno che li sappia interpretare al meglio, con un segno “forte”; proprio questo sembrerebbe essere il problema da quando Kondo è scomparso. Nonostante tutto Takaha dice di avere un paio di progetti in porto che spera di poter realizzare al più presto…e noi tutti glielo auguriamo!
Lo spazio riservato alle domande è terminato, tra gli applausi il maestro si siede nella platea con la sua valigetta stretta in mano, sembra un bambino sull’autobus della scuola al suo primo giorno, con la sua cartella sulle ginocchia, un po’ intimorito dal chiasso. Gli applausi continuano per qualche minuto ed il maestro si alza per fare qualche inchino al suo devoto pubblico.
Gli ultimi ringraziamenti da parte del professor Bendazzi annunciano il termine dell’incontro.
Ora Takahata si siede in un angolo della sala disponibile per firmare gli autografi, mi avvicino a lui con il mio 33 giri di Heidi, lui mi sorride, io sono così agitata che mi scordo di dirgli il mio nome per la dedica, fortunatamente lui è più sveglio e me lo domanda (ovviamente tramite il suo interprete personale) con un grande sorriso in volto. Gli stringo la mano e lui sorridendo mi fa un inchino, ricambio.
Poco dopo il sogno finisce, gli organizzatori ci fanno uscire (e pensare che qualcuno non è neppure riuscito a farsi fare l’autografo!) ed accompagnano fuori dall’auditorium il caro giapponese.
SECONDO GIORNO
Sveglia alle 9.30, giusto il tempo di vestirsi, preparare la borsa con l’occorrente per la giornata e partire per il cinema, ovviamente facendo una sosta caffè decisamente irrinunciabile dato che ci si presentava dinnanzi una giornata ricca di proiezioni, conferenze e quant’altro.
Ore 10.30 PROIEZIONE
Finalmente l’inizio del film “Heisei tanuki gassen ponpoko”, davvero spettacolare! (e pensare che ero piuttosto scettica riguardo a questo film!)
Ore 14.00
Vediamo finalmente (dopo un inconveniente tecnico della sera prima) “Giorni d’inverno”, mediometraggio (40 minuti) formato da 36 corti realizzati da 35 animatori provenienti da diversi paesi seguendo le regole del renku (antico genere poetico giapponese), ed in particolare seguendo i versi di Bansho (poeta del XVII secolo).
Un’esperienza decisamente interessante, anche se, devo ammetterlo, il documentario che ha seguito il film è stato pressoché indispensabile (per me, almeno).
Ore 16.00 OCELOT…ANTEPRIME DEI NUOVI FILM
Michel Ocelot si rivela essere un arzillo vecchietto, cocciuto come pochi esseri al mondo. Inizia subito con lo sfatare le nostre aspettative: a causa di un errore di stampa era stata annunciata la visione di una piccola parte dei due film che ha attualmente in lavorazione. Invece, ci dice con voce decisa (in francese, anche se parla un buon italiano): ”Avrete diritto a tre immagini, ma non dovete farne parola con nessuno, per evitare di togliere la sorpresa: dovete arrivare alla visione del film con occhi vergini”…rispettando la volontà del maestro non vi dirò nulla riguardo alle immagini (anche perché in realtà non hanno rivelato che il “sapore” dei lungometraggi)…almeno per il momento…sappiate comunque che il seguito di “Kirikù” sarà costituito da ricordi del protagonista (non mi sbilancio per non spoilerare anche riguardo al primo lungometraggio) e che l’altro si intitolerà “Azur et Asmar” e verrà doppiato per metà in lingua francese e per metà in arabo, e quest’ultima parte non potrà essere ri-doppiata in nessuna versione (curiosi, eh?).
Ore 21.00 SERATA DI CHIUSURA CON PREMIAZIONE
La serata finale si apre con la consegna della “Sedia d’oro alla carriera” a Isao Takahata e prosegue con la premiazione dei corti, vincitore assoluto “Father and daughter” di Michael Dudok de Wit, una melanconica storia d’amore tra figlia e padre.
Uscita dalla sala per una boccata d’aria, riesco a farmi fare una fotografia con il maestro…che emozione!
Ore 23.00 GLI ULTIMI MOMENTI DEL FESTIVAL
Dopo le premiazioni assistiamo alla proiezione dei film vincitori e arriviamo, quindi, tardi al rinfresco post-festival, allestito in un cortile del giardino botanico, quando quasi tutto è finito (ma non importa…tra una cosa e l’altra ho pure mangiato un boccone); ritroviamo invece tutte le persone che per qualche giorno hanno animato il paese, ormai siamo come un gruppo di amici, si parla e si ride, veniamo invitati ad un “post-post-festival” ma, ormai cotti, decidiamo di rientrare in hotel.
Un pollice all’insù, quindi, per questa prima edizione del festival, caratterizzata da eventi con grandi nomi e dalle dimensioni così squisitamente ridotte ed umane da rendere la permanenza in questo paesino ligure molto piacevole. Come dire… nella botte piccola sta il vino buono.