Accipicchia! E' passato già più di un mese dal post precedente. °_°
Beh, dopo aver parlato della 'traduzione' (non che non se ne possa riparlare) proseguo parlando un po' del cosiddetto 'adattamento'.
In effetti, credo che spezzare il processo di localizzazione testuale di un testo in 'traduzione' e 'adattamento' sia un po' un vizio tipico di un tipo di traduzione (in senso lato) parecchio connotata da necessità tecniche, quale la traduzione di un testo chiamato 'dialoghi per il doppiaggio' (di un'opera audiovisiva). Sono questi temi che ho ampiamente affrontato durante le lezioni di 'traduzione e adattamento degli audiovisivi' a cui mi sono dedicato negli anni passati. In ogni caso, vediamo un po' di mettere insieme qualche pensiero.
E' difficile, forse impossibile, stendere una reale manualistica delle logiche di traduzione e adattamento, perché ogni opera che si va a tradurre è diversa - e la traduzione essa stessa non può (non dovrebbe) prescindere dal peculiare materiale su cui opera. Tuttavia, credo sia possibile argomentare su delle linee guida di intenti ed intenzioni dell'operato interlinguistico.
La lingua, credo, sia strutturata in molti livelli. A basso livello ci sono i concetti base che l'uomo esprime nella comunicazione. Per intenderci, una lingua con li aspetti verbali mi appare più naturale, più a basso livello, di una lingua con i modi verbali, che ba va strutturandosi.
Per esempio, il legame sintattico di tipo genitivo è una specificazione del genericissimo legame che determina un "nome" con un altro "nome". In inglese si potrà dire "fire ball" o "ball of fire". Quello che 'ad altro e più alto livello' chiamiamo 'complemento di materia' a basso livello sono due nomi - il fuoco e una palla, che si legano, e l'uno caratterizza l'altro. Dapprima nella semplice posizionalità reciproca, che è la base del concetto di 'agglutinazione linguistica', credo.
Questo solo per dire che a basso livello è molto difficile anche solo pensare a una rigida geometria teminologica interna a una localizzazione.
Tuttavia, la mia tipica idea di "mantenere le variazioni e le permanenze" (interlinguistiche, anche se sto usando una terminologia analitico matematica, come si vede) di un testo nasce e si estrinseca a più alto livello (del testo).
Il più alto livello è la codificazione interna non tanto a una lingua, ma un preciso e puntuale testo espresso in quella lingua.
L'esempio classico è il manuale di istruzioni di un gioco. Un manuale di istruzioni definisce le sue parole chiave, codificate all'interno di quel preciso testo. Parole generiche come 'pedine' e 'segnalini' diventano, in quel particolare testo, parole specifiche quali
pedine o
segnalini. E la loro associazione di significante-significato diventa esclusiva e univoca, rigidamente.
Allo stesso modo, in un testo narrativo possiamo enucleare le parole chiave elette dall'autore. Sono parole che magari nella lingua d'origine hanno una gamma semantica anche vasta, ma in un particolare testo divengono spiccate, specifiche. In questo senso, per parlare più concretamente, la lingua utilizzata da Miyazaki Hayao è sempre molto, molto più codificata di quella utilizzata da Takahata Isao. E perché? Il perché è ovvio: perché Miyazaki crea opere di fantasia, che in giapponese si chiamano 'fantasy' (in giapponese questo termine non indica esclusivamente narrativa di cappa&spada&draghi, ma tutta la "narrativa del fantastico"), e quindi crea universi con i loro concetti e le loro codificazioni. Sono universi con delle loro regole, dei loro equilibri. Questo è tipico del fantasy. Per esempio, per restare su Miyazaki, il "vero nome" di cui Ursula K. LeGuin in Earthsea, opera a dir poco fondamentale per Miyasan, è "il Vero Nome", è una cosa codificata. In giapponese è "makoto no na". Ovviamente una cosa semplice come "vero nome" anche in giapponese si può dire in molti modi: "hontou no namae" potrebbe essere una delle prime cose che viene in mente. Ce ne sono molto altre, anche molto codificate nella lingua, mi pare 'hon'namae', anche (si può fare una rapida ricerca, volendo). Ma in Earthsea è molto più retoricizzato "makoto no na". Quindi in tutto
Ged Senki c'è "makoto no na". Poi, solo nella ending, c'è la variazione "shinjitsu no na", e quindi ho dovuto -sottolineo DOVUTO- applicare una variazione anche nell'adattamento. In quel caso: "nome veritierio".
Se si analizzano profondamente i testi che ho prodotto per i copioni dei film Ghibli (e qualcuno lo fa seriamente, magari per scrivere tesi e tesine, a vari livelli) si noterà che NON esiste una 'quadratura perfetta della terminologia'. Non sarebbe possibile farlo, credo. Non esiste né in tutta la lingua che si parla in tutti i film -il giapponese- e neppure all'interno di uno stesso film.
Esempio:
Mononoke Hime. E' una delle opere di Miyazaki Hayao con la lingua più ricca e più codificata al tempo stesso. Ci sono cose spiccata. Solo gli emishi, ideali 'buoni selvaggi' del tutto ricollocati nella fantasia di Miyazaki, usano il termine 'otome' (donzelle). Per contro, SOLO Ashitaka usa il termine 'shoujo' (fanciulla). In Laputa il termine shoujo veniva usato solo da Muska, che è sicuramente il personaggio più cerebrale, più colto del film. Ma Dola dice 'komusume' (ragazzina) e 'musumekko' (ragazzetta) - si noti la due diverse variazioni di 'musume' (ragazza) che ho diversificato fra loro in affinità, come in originale, e diversificato in assoluto dal resto dei sinonimi. Ma ci sono usi meno specifici della lingua, che non possono essere univocamente spiccati. Come 'ko', ad esempio, che indica genericamente il concetto di bambino/piccolo/cucciolo/piccino. Anche all'interno di uno stessi copione, non è inusuale che parole più "a basso livello" debbano venire rese in modi magari affini, ma sfumatamente diversi.
Questo per dire che sì, anche se quella che ritengo una linea di pensiero e una regola pratica mi pare un po' più netta di una generale tendenza costellata, scarnificata da mille eccezioni, semplicemente penso che una regola non sia un 'dogma'. Altrimenti, essendo una regola finalizzata a uno scopo, perderebbe sé stessa diventando - appunto - fine a sé stessa. E' una cosa che mi sono sempre sforzato di evitare.
Un'altra cosa che mi sono sempre sforzato di evitare è sovrascrivere una presupposta connotazione di genere alle opere su cui opero.
Tipicamente, nell'adattamento funzionano alcuni meccanismi inconsci tipo "è un fantasy (nel senso cappa&spada&medioevo), quindi la lingua deve essere tutta così e cosà", oppure "è ambientato nel passato, quindi parleranno tutti così e cosà". Se si guarda anche una telenovella modesta come "Il segreto di Puente Viejo" in italiano, si noterà l'insistita ricerca di un vocabolario tutto manieroso, tutto 'anticheggiante'.
Talune persone mi criticano pensando che io sovrascriva un mio riconoscibile stile ai testi su cui opero, ma in realtà è tutto il contrario. La matrice comune che emana dai quei testi italiani è più semplicemente l'effetto, per molti inedito, di una traduzione quanto più fedele che muove dalla stessa lingua di partenza: il giapponese. All'interno di questo campo, si manifestano tutte le varianze e variazioni di caso. Credo tuttavia che la cosa più importante sia sempre andare nel profondo del testo originale, nel dettaglio linguistico di ogni frase, locuzione, parola. Capire tutto approfonditamente e POI renderlo fedelmente per quello che l'originale E', non per quello che l'originale 'vuole significare'.
Del resto, come dicevo, io sono una persona piuttosto tarda. C'ho messo non so quanti anni (comunque più di cinque) a capire come davvero si dovesse intendere una cosa semplice come "Howl no Ugoku Shiro" - pensate un po'. Poi ci sono arrivato. E ogni cosa, nella mente di chi la usa, significa una cosa, significa qualcosa di preciso, significa una cosa e non un'altra, anche se le parole che sono usate potrebbero aprire la porta a varie interpretazioni. E' essenziale rendere precisamente la realtà delle parole per quello che le parole sono e per come sono state intese da chi le ha usate in originale.
Fosse stato per me, "Gake no Ue no Ponyo" si sarebbe chiamato "Ponyo di sopra al dirupo" - tanto per mantenere una particella tra ogni sostantivo (e poter ricreare il logo con identico pattern cromatico) e per mantenere la specularità con una delle fonti ispiratrici "Gake no Shita no Iya-Iya-En", di Nagakawa Rieko. E' poi è meraviglioso che abbiamo anche noi, proprio con gli avverbi 'sopra' e 'sotto', un caso di genitiva locativa - e si mantiene il doppio senso locativo-appositivo.
Se chi mi contesta, o mi denigra sinanco, intende dimostrare che in una operazione interlinguistica una componente di discriminante umana c'è sempre, anche ponendosi una direttrice che tende all'obiettivo come la mia, non c'è bisogno di dimostralo: certo che c'è.
Il punto è qual'è la linea guida, il faro guida - secondo me.
Criteri di 'gradevolezza' o 'bellezza' sono il MASSIMO della relatività.
Criteri di 'scorrevolezza' o 'fluidità' (della lingua) sono ancora parecchio relativi.
Criteri di 'uso' o 'naturalezza' (della lingua) sono ancora relativi, qualora non corroborati da fonti autorevoli. Una ricerca in google [spesso condotta malaccio e letta ancor peggio] non statuisce quanto un termine sia 'corrente', no.
Quindi il discorso che il 99% dei miei 'contestatori' non fanno altro che battere i piedini dicendo, in soldoni: "gnegnegnè, il film che volevo mi piacesse non è come mi piacerebbe, gnegnegnè è colpa tua!". Poi ci sono molti 'stili retorici' dietro ai quali viene perlopiù mascherato questo sentimento. Dal dileggio pecoreccio fatto con editing di immagini, all'ostentata saccenteria accademica sterile, ce n'è per tutti i gusti. Ma alla fine è sempre "gnegnegnè".
Io cerco sempre di anteporre l'obiettivo al soggettivo. Il mio criterio di base è questo. Chi se ne importa, ripeto, se una cosa piace a me? A me interessa che la cosa sia corretta, in primis, secudis e tertis. Dietro ogni scelta, dietro ogni scelta di ogni vocabolo sinonimale, ci possono essere due fondamenti:
1) ho scelto questo perché mi piace / ci sta bene / funziona
2) ho scelto questo perché, dopo aver consultato tutte le fonti a mia disposizione nei due ambiti monolinguistici interessati, questo si riprova il termine più corretto, anche in coerenza con la terminologia di tutta l'opera, parimenti analizzata a catalogata.
Io faccio nel secondo modo.
Come si capirà, ci vuole giusto un po' più di tempo e impegno e sforzo. Ovviamente 'fare a proprio gusto', ovvero 'reinvertarsi tutto' è una cosa INFINITAMENTE più rapida, agevole e per qualcuno divertente.
Ma la mia è una base obiettiva posta come fondamento di scelte comunque umane. La grossa differenza è questa.
Quindi è anche ovvio che ogni critica che in soldoni si riduce al significato di "gnegnegnè ma non mi piace!" mi sia indifferente. Io non voglio far piacere niente a nessuno.
Ma ricordo una volta che un commentatore proprio su questi lidi mi scrisse: "Ho visto Sen e Chihiro, e secondo me ha due difetti che sono X e Y."
E sì, era così, quindi ho detto: "Sì, hai ragione, quello è il meglio che siamo riusciti a fare ma non è all'altezza." - tipo. Perché esistono anche critiche fondate su elementi obiettivi e sulla conoscenza dell'originale che si intende tradurre, adattare, doppiare.
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Proseguendo, mentre stavo combattendo con lo special di "Fiilirulì i vicini Yamada" (è stupendo e complesso, come ogni cosa di e con Takahata. Il suo livello di analisi sociologica è pari solo al suo puntiglio o alla sua capacità di sperimentazione artistica - è davvero pazzesco), sono stato contattato da una studentessa che, dovendo scriverci su una tesi, ha fatto un analisi puntuale dei copioni italiani vecchi e nuovi di
Mononoke Hime e
Sen to Chihiro. Una cosa davvero mirabile, perché si tratta di un'analisi basata sulla valutazione di dati reali, raccolti sul testo e ordinati in tabelle. Tot dislocazioni qui, tot interiezioni qua - paragone vecchio/nuovo. Fattuale, puntuale, analitico. Ah, che bello, che meraviglia! E' evidente che non ho potuto che dare seguito a tutte le richieste della volenterosa e documentata interlocutrice del caso.
E nel discorso, al di là delle richieste di spiegazioni di scelte puntuali, sono venuti fuori anche dei discorsi generali che potrebbero interessare gli interessati alla questione. Quindi riporto qui degli stralci (che quando ne avessi il tempo vorrei pure rielaborare in qualcosa di più organico, ma già questo lungo post in effetti è un primo passo in quel senso).
< sulla variazione della resa di suffissi nei due film >
Tipicamente, "-sama" è un onorifico più elevato di "-dono". Inoltre, '-dono' ha una marca di variazione diacronica (medioevaleggiante) ben più spiccata.
Una delle mie "bizzarrie" è enucleare il contenuto semantico preciso "per aree" del testo originale, e cercare una corrispondenza idealmente biunivoca di resa terminologica. Questo tipo di "univocità e disambiguazione" dei termini, volta a creare una corrispondenza precisa sull'originale, mira a preservarne la cifra stilistica: ciò che è uguale nell'originale (permanenza) tale vorrei che fosse nell'adattamento italiano, ciò che è diverso (variazione) così vorrei che fosse. Il famoso caso del "bien sur" della Volpe nel Principino.
Tuttavia, chiaramente, non è mai possibile. Perché l'intersemantica non parte da una radice comune, no? Non ci sarà mai una perfetta corrispondenza. E anche la forzatura a cui si può sottoporre il testo tradotto/adattato DEVE trovare in limite, altrimenti è la follia. Ovvero, questo 'puntiglio semantico terminologico filologico' (o come dir si voglia) deve essere sempre un mezzo, non un fine. Come risultato, innanzitutto è qualcosa che io ricerco internamente a ogni singolo copione, non in toto sulla lingua. Non esiste la "tavola delle disambiguazioni del giapponese tradotto da Shito", ma le "tavole delle disambiguazioni" di ciascun film. E ogni film è diverso, fa un uso della lingua diverso. In secundis, anche all'interno dello stesso film, la disambiguazione non sarà mai perfetta.
< sulla variazione della resa di "-sama" da un film all'altro >
E' la resa di -sama in quel contesto. Ovvero, poiché -sama è ancora in uso, comunissimo, nel Giappone di oggi, si capisce che un rapporto 'padronale' sarebbe anacronistico. Ma nell'ambiente del "La sparizione di Chihiro e Sen" è al contrario ben adatto a rendere l'idea che "il padrone del negozio dove lavori è il tuo "padrone" " - un po' come negli anni Sessanta. Se poi ci si mette anche la magia di mezzo, e il controllo su prossimo (eredità di Ursula K. LeGuin... per Miyazaki, dico).
< sulla variazione di registro tra Chihiro e altri personaggi dei bagni pubblici >
In primis, poiché Chihiro è una ragazzina contemporanea, difficilmente usa un livello di deferenza paragonabile ai personaggi del mondo fantastico che vediamo nel film. Difficilmente Chihiro usa -sama in assoluto. Anche quando parla con lingua deferente, educata (cosiddetto "keigo"), utilizza più comunemente il suffisso -san, anche perché è una bambina.
Al contrario, gli adulti servitori del mondo fantastico hanno tutt'altro registro.
C'è anche una marca di variazione diacronica: il contemporaneo (Chihiro) trovo sia meglio rappresentato dall'uso cortese del "lei", l'antico dall'uso cortese del "voi".
< sulla presenza di interiezioni nella battuta del Nume Okkoto: "Ah, sei la figliola di Moro, eh? Ne avevo sentito delle voci." >
Andando a controllare la battuta...
"Oooh..... Moro no musume da ne. Uwasa ha kiiteita yo."
Il primo verso interiettivo è molto lungo. E' un verso non tanto di sorpresa, quando ti "ah, sì, capisco, mi sovviene".
Poi c'è il 'ne' che si collega a quello, ovvero: esprimo una cosa che già sapevo a cui ho trovato ora conferma, mitigando la portata affermativa della "scoperta" (il "nuovo dato").
Non si tratta, come si vede, della "struttura originale giapponese" della frase, quanto del suo significato, del suo contenuto comunicativo. Per esempio, la particella "yo", che esprime invece una sorts di appuntarsi fermo/impositivo del contenuto semantico che chiosa, non è resa con una particella interiettiva italiana.
Tuttavia, in generale questa precisione di resa sulle "particelle interiettive" dell'originale è difficile da ottenersi, specie perché spesso un singolo 'battito labiale' può essere davvero un po' al limite. Ma il tentativo è quello di rendere sempre il più possibile dell'originale.
< sull'uso di abbondanti dislocazioni e sull'apparente aderenza con la sintassi giapponese >
Dunque dunque, questo è un tema articolato. Cerchiamo di affrontarlo ordinatamente.
In primis, dici bene quando dici che le dislocazioni sintattiche in italiano sono tipiche della variazione diamesica della lingua parlata e diafasica del colloquialismo. Giustissimo.
Quindi, poiché per 'dialoghi' si parla per definizione di 'lingua parlata', di per sé direi che la cosa è spiegata. I dialoghi, benché scritti, non sono prosa: sono idealmente "lingua parlata trascritta", giusto?
Andando più nel profondo, chiediamoci: perché? Perché la lingua parlata e colloquiale mostra da noi un'abbondanza di dislocazioni? La risposta è che le dislocazioni servono, ovvero spontaneamente nascono, per una involontaria dominanza della logica di costruzione della frase tema-rematica si quella rigidamente morfosintattica (per l'italiano: SVO).
E come mai?
Perché la lingua parlata vive di 'istantaneità' genetica linguistica, ovvero il pensiero viene verbalizzato così come è formulato nella mente. E l'impellenza comunicativa sarà sempre sul rema, perché quella è la parte che si vuole comunicare, è il "centro di imputazione psicogenetico della frase" (definizione che uso io, non so come si dica in accademia, non mi interessa). Il tema lo si recupera a posteriori, come una chiosa di contestualizzazione del rema.
Del resto, la comunicazione dialogica disloca e segmenta le frasi perché in genere è de visu, indi la contestualizzazione è anche fattuale. E' proprio figo! (il film che stiamo vedendo). La parte tra parentesi potrebbe essere omessa come superflua, oppure dislocata. La lingua parlata vive anche di tonalità sulla frase, di incisi e relative la cui collocazione sintattica vive di toni abbassati o alzati.
Ci avete mai fatto caso? Poiché nell'epoca della comunicazione digitale ci sono molte forme comunicative scritte all'istante (chat, sms, ecc), la forma di "lingua parlata trascritta" è debordante. Al punto che da un lato si inventano segni di marca tonale sulle parole, una cosa DAVVERO brutta, o *davvero* strana, tipo. Dall'altro, i più giovani perdono l'uso corretto della punteggiatura italiana come segno morfosintattico e la usano come notazione tonale. Quindi io, penso questo. Sì... virgola tra soggetto e predicato verbale... o abuso... di puntini... di sospensione.
Tutti effetti della mano che scrive in tempo reale quello che la mente pensa, in trasduzione simultanea.
Per contro, la presenza di una sintassi precisamente SVO in simili luoghi di "conversazione dialogica scritta" conferisce allo scritto stesso una parvenza di pomposità, di freddezza e distacco dell'autore. "Quello lì parla come un libro stampato!"
Il che è sensato, perché se hai seguito il discorso ora concorderai che una lingua rigidamente SVO è per forza una lingua "ripensata", ovvero parlata e riconsiderata per la scrittura.
I dialoghi non dovrebbero mai essere così. Se lo sono, sono retorici e fasulli.
Quindi, passando ora al giapponese, il giapponese proprio non è così.
In primis, trovo alquanto risibile l'assoggettamento forzoso della lingua giapponese a schemi linguistici tipicamente occidentali. Come si può leggere sul questo stesso forum, dotti linguisti yamatologi ci diranno che il giapponese ha una struttura SOV, forse, ma la verità che - fuori dalle frasi minime delle scuole elementari - il giapponese ragiona proprio come tema-rema. E' una lingua più "naturale" della nostra, è ancora fresca come una lingua parlata trascritta.
Quindi si potrà ben dire che la mia ricerca del tutto italianistica di una lingua italiana dalla sintassi "realmente dialogica" ben si adatta, per certi versi ben si presta alla resa della lingua giapponese. E' fortuito (molto).
Ma non è, non è mai stata e non può essere la ricerca di una aderenza sintattica. L'italiano non ammette il verbo in chiusura di frase, in genere - come per il giapponese è spesso comune. Quella della ricerca di aderenza sintattica è una scemenza imbracciata da detrattori del mio operato che, palesemente, proprio non sanno di cosa parlano.
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Fine degli stralci, e per ora del lungo post.