"Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

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Shito
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"Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Avete mai sentito la frase "Non si deve fuggire!"...?

Si tratta in effetti della "frase simbolo" del personaggio di Ikari Shinji in Evangelion, o meglio nei primi sei episodi di Evangelion (quelli che furono completati e compiuti dagli autori prima del debutto di messa in onda della serie, ovvero 'il primo, coerente blocco' di episodi). In originale giapponese la frase è 逃げちゃだめだ! ovvero "Nigecha dame da!"

Per intenderci:

https://www.youtube.com/watch?v=9Q8FiCUGN1k

Ai tempi (estate 1997, per me) la resi in italiano come: "Non devo fuggire, non devo fuggire, non devo fuggire...!", e sicuramente lo ritengo ancora un adattamento accettabile, dico la declinazione di quel mantra in prima persona singolare, ma in effetti la forma impersonale (Non si deve fuggire!) sarebbe stata e sarebbe molto più opportuna — perché la grammatica e la sintassi dell'originale vogliono quella frase suonare e significare come un imperativo assoluto e anche un po' bambinesco, un po' come il "non si fa" di una mamma a un bimbo — come se fosse, per capirci "fuggire non si fa!" (così è stortignaccolo in italiano, ma wow, quasi perfettamente melodico sull'originale, e wow!). In ogni caso, in seguito avrei anche capito quanto quella frase trascenda la singola scena che ho qui linkato. Come mai? In primo luogo mi resi conto che il concetto di "non si deve fuggire", inteso come motore di un'azione, ovvero di un agire che si trova a fatica la forza per intraprendere, era sotteso in tutte le scene in cui Shinji esita a stringere la mano. Si tratta di un'immagine che si ripete più volte nella prima parte della serie, quasi un tormentone grafico che appare in varie situazioni: dal fare una telefonata che si ha timore di inoltrare a prendere i comandi dell'Evangelion-01. Come si nota, nella scena che linkavo, il primo caso di "Non si deve fuggire!", la mano da serrare a pugno è proprio quella sporca del sangue di Ayanami Rei, malamente ferita (nel frammento postato ansima dolorante in sottofondo).

Ma c'è di più. Ai tempi (ancora: il 1997), la GAiNAX aveva online il suo antico sito, tipicamente da web 1.0 se non 0.9 — e questo scombiccherato sito aveva anche una ancor più scombiccherata controparte inglese (in seguito avrei anche scoperto chi l'aveva tradotto). Ebbene, in questo vecchio sito c'era anche una pagina delle "keywords dell'azienda", diciamo così. Chi si intende di WayBackMachine potrebbe forse divertirsi (?) a ritrovare quella pagina Web, comunque fatto sta che tra le parole/espressioni chiave della GAiNAX c'erano anche "Nigecha dame da!" e "Iya~na kanji!". La seconda di queste espressioni è forse ancor meno univocamente traducibile della prima, anzi, lo è di certo. In ogni caso è una frase di repulsione, di rifiuto, che sarebbe tipo: "Che senso di disgusto!", o "Che sensazione sgradevole!", ma è meno elaborata, quindi tipo "Aaah, che orrore!", o "Aaaah, che disgusto", o forse meglio ancora: "Aaaah, mi fa senso!". Magari ci siamo capiti. I più attenti penseranno forse che è un'espressione molto affine a quella conclusiva dell'originale film conclusivo di Evangelion, ovvero il celeberrimo "Kimochiwarui...!" di Asuka, che però trovo più univocamente significante se reso in un liscissimo "Che schifo.".

Nel caso di "Iya~na Kanji!", la frase compare nella serie di Evangelion per due uniche e distinte volte: quando Touji e Kensuke vedono Shinji vestito col plug-suit di Asuka (fine episodio 8, stanno sbarcando) e quando Touji e Kensuke vedono Shinji e Asuka vestiti allo stesso modo (episodio 9) — entrambi le occasioni buttano sul comico (si nota al tono un po' da commedia tipico di Higuchi Shinji, annoterà il lettore più edotto), ma vi ricordo che Touji e Kensuke "vengono" da Murakami Ryuu (nota: nella seconda delle scene di cui qui parlo c'era anche un buffo gioco di parole che avrei compreso tanti, tanti anni dopo).

Dunque, la cosa davvero interessante è che nel citato sito della GAiNAX la spiegazione di queste due espressioni era circa:

"Iya~na Kanji!" è quello che si prova di fronte a una realtà che si vorrebbe evitare ad ogni costo, ma la risposta che bisogna opporre è "Nigecha Dame Da!".

Ora, mi si perdoni, ma questo (e tutto Evangelion, in principio ed in fondo) non mi pare altro che l'espressione del tentativo di crescita di un ragazzo che fatica ed è recalcitrante a diventare adulto.

E qui, finalmente, siamo arrivati a TAKAHATA ISAO. :-)

No, non intendo dire per il fatto che Anno Hideaki fece l'animatore per La tomba delle lucciole. :-)

Intendo che, a mio modo di vedere, proprio tutta la comunicazione intentata da Takahata Isao con i suoi film si può più o meno ridurre alla frase topica: "Non si deve fuggire!", o meglio "Non si deve fuggire dalla vita!".

I film che ora sto tenendo a mente sono soprattutto quelli che Takahata Isao ha realizzato con lo Studio Ghibli, ovvero, nell'ordine:

• La tomba delle lucciole
• Ricordi a goccioloni
• Battaglie tanuki d'epoca moderna Ponpoko
• Fiilirulì i vicini Yamada
• La storia della Principessa Splendente


Ordunque, in primis mi pare evidentissima la contestualizzazione di "Non si deve fuggire!" in La tomba delle lucciole. Qui il giovane Seita, figlio viziato di una famiglia ricca d'amore e di lussi, non riuscendo a sopportare le asperità della vita da orfano di guerra fugge con la sorellina dalla casa della zia ospitante per "giocare alla famiglia" [kazoku-gokko]in una grotta, si chiama fuori dalla società civile sua contemporanea, condannando a morte prima la sorella e poi sé stesso. Rifiutando una vita troppo dura, fugge dalla vita e quindi muore.

Interessantemente, Takahata Isao si è sempre prodigato nel rimarcare che per lui tutto il significato del film era proprio e solo nell'analisi della condotta di Seita, ovvero nel chiedersi: "Ma che cosa ha fatto, questo ragazzo?" — sic. Takahata elabora che il comportamento di Seita fosse del tutto inusitato per un ragazzo della sua stessa generazione (sua di Seita, ma anche dello stesso Takahata): i ragazzi di quell'epoca erano forzati a sopportare, per (soprav)vivere. Takahata elabora che il comportamento di Seita appare più consono, anzi già tipico, per un ragazzo degli Anni Ottanta, ovvero l'epoca in cui viene realizzato il film animato, ormai in piena postmodernità.

Ancora più interessantemente, Takahata elabora (almeno in DUE distinte occasioni, ovvero in un'intervista/dialogo proprio con Nosaka Akiyuki e poi nei materiali speciali di Fiilirulì i vicini Yamada) che per lui la parola più spaventosa di tutte è "mukatsuku", un'espressione giapponese alquanto moderna, giovanilistica e volgare (anche un po' più femminile che maschile, forse) che potrebbe significare "chemmerda", o "cheschifo", o "fanculo", ma in ogni caso si dice per rifiutare qualcosa.

Secondo Takahata, questa espressione è pericolosa perché nel pronunciarla si espleta un rifiuto categorico, e quindi una fuga e quindi un isolamento dalle realtà ovvero dalla vita, e poi le persone così radicalizzatesi nel loro idealismo escapista/isolatra "si spezzano" ("vanno fuori di testa"). Questa è la ragione per cui Takahata critica tutta la narrativa fantastica a partire da quello che gli appariva come il non plus ultra del genere: Mononoke Hime.

In ogni caso, è interessante notare che "mukatsuku", come espressione da pronunciarsi al momento del rifiuto, è praticamente l'esatto contrario di "nigecha dame da!". Significa nei fatti: "non lo accetto, lo rifiuto, lo allontano, mi chiamo fuori". Ovvero "mukatsuku" è quello che si dice *mentre si fugge*, rifiutando qualcosa. È come se di fronte a qualcosa di brutto per noi, pensando "iya~na kanji" o "kimochi warui", poi o si dice "mukatsuku!", e lo si rifugge, oppure ci si fa forza dicendo "nigecha dame da!", non si deve fuggire, e allora si sopporta ovvero si cerca un terreno di compromesso, di accomodamento, che per Takahata rappresenta la fondamentale natura e direi virtù umana.

Molto, molto importante è anche il concetto di "isolamento" che Takahata considera connaturato all'idea di mukatsuku/rifiuto: il rifiuto categorico è un atto individuale che conduce a un piano ideale in cui esiste solo il giudizio del sé, in cui l'unico referente è il sé, in cui il soggetto si isola finché non si spezza. Questo concetto è espresso molto nitidamente da Takahata ed è un cardine portante.

Inaccettazione -> Rifiuto -> Fuga -> Intransigenza -> Idealismo -> Isolamento -> Solitudine -> Pazzia/Morte

Fino a qui il discorso mi pare abbastanza palese, oltre che lineare. E in realtà saremmo già arrivati fino a Fiilirulì i vicini Yamada, anzi in effetti questa linea di concatenazioni potrebbe già chiudere il discorso, ma seguiamolo nei vari film dell'autore, cercando di non elidere tutto quanto c'è nel mezzo.

Nel mezzo, dunque, c'è innanzitutto Ricordi a goccioloni. Bisogna premette che il soggetto, il materiale narrativo di questo film è per più di metà originale di Takahata, perché il manga da cui è tratto racconta solo le vicende ovvero gli episodi di Taeko bimba. Quindi tutte le vicende della Taeko adulta, tutti i suoi pensieri, i suoi problemi e la risoluzione di quelli, e poi l'analisi che ne deriva, per non dimenticare tutta la questione del paragone tra i modelli di vita contadini e cittadini contemporanei, e le riflessioni sulla realtà della "campagna", e ancora tutta la "messa in prospettiva" anche delle vicende della Taeko bimba, sono tutto materiale originale di Takahata.

In questo film, dunque, a me pare evidente che Taeko, figlia viziata del baby-boom sessantino e delle nuove realtà cittadine giapponesi, sia arrivata alla sua età adulta come "bloccata" da non meglio messe a fuoco aspettative infantili. Modi di vita infantili, anche. Diletti infantili, forse. Tutte cose sempre in qualche modo frutto di idealizzazioni (si pensi alla riflessioni di lei fatte nella cuccetta sul treno d'andata)? Ancora, nel film il maggiore "blocco" di Taeko sembra essere un trauma infantile — l'esperienza col piccolo Abe — ancora irrisolto a causa di una lettura del casus tutta viziata dall'idealismo infantile, e da non poca fuga dall'onesta coscienza del sé. Le cose che Toshio scardina e, quindi, risolve. Da lì c'è la rapida presa di coscienza da Taeko che cambia la sua vita perché ne prende in mano lo sviluppo, ed è tutto meravigliosamente spiegato dalle parole della canzone finale del film (versione giapponese di "The Rose", tradotta ad arte da Takahata stesso), che ci parla di una vita non vissuta perché prigioniera della paura di darsi alla vita stessa. Ovvero, ancora, di una vita non vissuta perché "in fuga", perché "in negazione".

In questa limpida dinamica c'è anche una cosa che mi era sempre sfuggita, credo, o comunque non avevo mai messo sufficientemente a fuoco. Potrebbe invero essere qualcosa di molto banale, ma ricordate che sono tardo. Ebbene, la Taeko adulta, che come dicevamo è un personaggio tutto di Takahata, va in campagna non per vivere davvero la campagna, ma solo per "giocare alla campagnola" (inaka-gokko), proprio come Seita era andato a rifugiarsi con la sorellina nella grotta non per proteggere realmente lei e sé stesso, ma per "giocare alla famiglia" (kazoku-gokko). Sono un cretino perché in realtà questa realtà del personaggio e del comportamento di Taeko nel film viene pure detta chiara e tonda, in quel passaggio cruciale che sono le riflessioni di Taeko quando "fugge" dalla casa paterna di Toshio, prima di venire raggiunta da lui in auto. Siccome poi c'è tutto il punto dei ricordi infantili di lei, di Abe e della risoluzione del suo trauma pregresso, almeno io mi sono sempre appuntato su quello, molto freudianamente, come a dire: "ecco, lo psicanalista Toshio ha sciolto il nodo ancora non-elaborato della paziente Taeko, ora tuttapposto". Stupido io. Il punto ora mi sembra tutt'altro, e mi sembra chiarissimo. Ovvero: sin dall'incipit del film (che è ancora farina del sacco di Takahata al 100%, eh!), Taeko "non sta vivendo davvero la sua vita". Ovvero, fa l'impiegata single in una ditta, tutta brava e cortese, vive in un appartamentino da sola, guarda il gatto sul balcone... ma è come in una moratoria di adolescenza, no? E' come una ragazzina "nella sua cameretta", se ci pensate. Sta forse vivendo appieno la sua vita, la sua età adulta? No. Piuttosto ragiona come una studentessa bloccata in un'interminabile vacanza scolastica che si chiama "finta adultità", ovvero è in una condizione di moratoria indefinita. E la sorella maggiore al telefono glielo dice chiaro e tondo, che sta diventando una zitella. Sembra il rimbrotto della sorellona un po' gretta, ma in effetti è la pura verità. E infatti Taeko non fa che pensare al passato, all'infanzia, e ancora "fugge" in quel "diletto da otaku" che è per lei "la campagna", una sua fissazione infantile, un desiderio infantile che ancora si spinge a realizzare. Va ancora a fare le vacanzine che voleva fare da bambina, e nulla più. E NULLA PIU', il punto è questo. E come dicevo, che lei poi stesse solo "giocando alla campagnola" (inaka-gokko) lo comprende infine lei stessa, se ne capacita e se ne vergogna dandosi addosso mentalmente in quella fuga lacrimosa, e bisogna riflettere che quel treno di pensieri si conclude col fatto che "si erano accorti tutti che io non avevo alcuna capacità di cambiare la mia vita". Come dire: sei ancora la figlia della tua famiglia, dei tuoi genitori, che aspetta il cambiamento dall'esterno, non sei un'adulta padrona di sé.

Sì, Toshio scioglie un nodo, forse il nodo, nell'infanzia di Taeko. Toshio risolve Tabimba. Ma Taeko si risolve da sola, in treno, con Tabimba che la tira per il braccio, quando ROMPE il binario dalla sua vita infantile imperniata su uno schema di moratoria indefinita, molla tutto, e si butta nel vuoto tornano da Toshio per restarci. In questo senso, davvero il testo della canzone che suona in sottofondo in quel momento ha tutto un senso, vero?

Nel timore di avvilirsi… il tuo animo non danza.
Nel timore di svegliarsi… i tuoi sogni perdono le occasioni.
Nel rifiuto di venire rubato… il tuo animo non si dona.
Temendo di morire… non si riesce a vivere.

Una lunga notte… tutta da sola.
Una strada lontana… tutta da sola.
L’amore non arriverà mai… quando la si pensa così.

Prova a ricordare… d’inverno…
anche se viene ricoperto dalla neve…
il seme, in primavera… sotto l'alto Sole…
con l'amore, sboccia in un fiore.


Siamo sempre lì. Anticipo i tempi facendo notare che gli ultimi versi della canzone in questione sono praticamente la precisa descrizione di quello che il carbonaio insegnerà poi a Kaguya, nella conclusione della scena topica della fuga matta di lei: dopo la morte (l'inverno) torna la rinascita (la primavera), e nel suo totale ciclico la vita non finisce. Sotto la neve i semi attendono di schiudersi al nuovo sole della primavera che verrà.

Si passa quindi da PoroPoro a Ponpoko, ovvero alle Battaglie tanuki dell'epoca moderna Ponpoko, e cosi si arriva a un film il cui soggetto è invece totalmente di Takahata. E si vede. Ricchissimo di influenze folkloristiche ma anche letterarie, tratte soprattutto da Miyazawa Kenji (che sempre caro fu a Takahata, e studiandolo anche poco se ne capisce il perché), ancora possiamo seguire l'evoluzione non solo stilistica, ma ancor più comunicativa, dell'autore: abbiamo qui una limpida analisi, o meglio una neorealistica esposizione, del Giappone moderno, coi baby-boomers diventati ormai nucleai familiari e necessitanti alloggi, e la forte virata sociale da una società ancora molto rurale a quella densamente, e forse forsennatamente, urbanizzata. Takahata incarna nei tanuki l'immagine dei "giapponesi di una volta", che inesorabilmente soccombono sotto i colpi di una modernizzazione occidentalizzante per molti versi percepita come imposta, subita. Anche nella dolorosa storia dei tanuki, però, una cosa è certa: chi rifiuta l'evoluzione della vita, chi la rifugge, inesorabilmente muore. Muoiono i poveri rinunciatari, che di fronte all'estremo fallimento si abbandonano allo stordimento del buddhismo amidista e vanno letteralmente a suicidarsi canticchiando felici, e così pure muoiono i reazionari ad oltranza, che nella radicalizzazione della loro lotta si danno a un disperato "attacco speciale" per andare a morire "come perle infrante". A sopravvivere sono solo quelli che si adattano, ciascuno secondo le proprie possibilità: i trasformisti come Shoukichi, che sotto mentite spoglie assumono faticosamente e dolorosamente gli stili di vita moderni e occidentali, e i semplicioni come Ponkichi, che vivono ai margini della società moderna. Ma proprio per questi ultimi c'è il più grande apprezzamento di Takahata:

"L’espressione “andare incontro alla vita”… ma non esisterà apposta per i tanuki? Non frenati né da sviluppo urbano né da incidenti stradali… spensierati e calorosamente allegri… vanno incontro alla vita facendo anche cuccioli… e poi, capitando pure a morire anzitempo."

L'apoteosi dell'essere accomodanti e concilianti, direi.

Mi viene in mente che, in biologia, l'attitudine alla vita è anche intesa come capacità di adattamento ambientale, e che la radicalizzazione, ovvero l'irrigidimento, che viene con la specializzazione evolutiva conduca all'estinzione. Pare che i dinosauri, complice un meteorite e un susseguente sconvolgimento climatico, si siano estinti così. Qualcuno ebbe persino a dire: "il punto terminale dell'evoluzione è l'autoestinzione, la morte stessa".

Tornando alle tappe filmiche di Takahata Isao, si prosegue con Fiilirulì i vicini Yamada. Devo dire che, al momento attuale, considero questo film il più grande capolavoro di un regista che considero un autore di capolavori. Credo che questo film sia forse il più umano in assoluto tra tutti i film di Takahata Isao, e anche il più reale, il più concreto, il più vicino al pubblico. Sarà perché prende le mosse da una striscia a vignette umoristiche, forse. Ma davvero, in questo film, Takahata non ha neppure bisogno di mostrare qualcuno che finisce a mal partito perché fugge: basta mettere in scena la sgangherata famiglia Yamada, con la sua mediocrità, per segnare la via, poi eloquentemente scandita da Que sera, sera! (anch'essa ri-tradotta in giapponese di proprio pugno da Takahata stesso). Buttarsi contro la vita, andare incontro alla vita, di nuovo, ed essere accomodanti, ma nei più — a mio dire — realistici ambiti umani. Questo film è così concreto, così vero oltre che reale, che mi atterrisce. Non vediamo morti o battaglie o suicidi, ma il discorso nuziale di Takashi non è forse più eloquente di qualsiasi metafora... fantastica?

Perdonatemi, permettetemi di citare:

"Nella vita… è la rassegnazione, che è essenziale! Proprio il rassegnarsi… in quali che siano le circostanze… per non abbattersi… non spezzarsi… non scoppiare… per evitare ciò… quello è il segreto! Per quanto orribile un comportamento… fino a quando questo non sia il prodotto d'una cattiva intenzione… rassegnandosi, si può perdonare…! Anzi… senza perdonarlo, vivere non è possibile! “Non c’è alternativa”… “non c’è scelta”, queste parole… non sono in alcun modo espressioni solo negative! Sono cose assolutamente necessarie! Per andare a condurre una famiglia in allegria e buona salute… e poi, per andare a fronteggiare… la vita, attraversandola! Per quanto duro sia quel che ci capita… “beh, ma non c’è scelta, no?”… con questa espressione, che a prima vista sembra pessimistica… recitandola come un incantesimo… non resta altro che rialzarsi in piedi, nevvero?"

Mi inchioda a terra. A questo discorso, fatto dal pavido Takashi con voce tremolante, l'anziana suocera in lacrime soggiunge tra sé e sé "Ti ho rivalutato... sei diventato un uomo."

E mi schianta a terra.

Si capisce bene come mai questo film venga proprio dopo la critica a Mononoke Hime di cui dicevo prima. In fondo, anche nella favolistica simbolica di Ponpoko c'era un po' di fantastico. Qui invece no. Questo è un film che mi ha profondamente scosso, per dire poco. E anche qui, la canzone finale è una stoccata che va dritta al cuore. Si intitola "Ho smesso di essere sola soletta". Torna il discorso della solitudine come frutto dell'isolamento che è frutto della fuga che viene dal rifiuto.

Ancora, mi si permetta di citare:

La luce del mattino in cui ha smesso di piovere…
dopo averne assorbita un sacco nel mio cuore…
sto venendo a incontrarti.
Sto venendo a bordo di un treno.

Che la vita sia fatta soltanto di addii… ma sarà la verità?
Sarà soltanto questo?
Dopotutto ci sono i “buongiorno”, no?
Ci sono ogni giorno, no?

Questi sentimenti di cui nessuno si accorge…
vorrei che fossero noti soltanto a te.
Ho smesso di essere sola soletta,
Vedi? I sentimenti allegri li condividerò… con te.

Sul vetro del finestrino si riflette la notte…
dispiegando l’animo che avevo riposto ripiegato.
Mi dispiace di aver fatto la cattiva.
Mi dispiace di non essere riuscita a scusarmi.

In simili momenti in cui non ho forze…
nei momenti in cui non ho alternativa che voler piangere…
mi è necessaria la tua voce…
vorrei abbracciarti…

Questi sentimenti di cui nessuno si accorge…
vorrei che fossero noti soltanto a te.
Ho smesso di essere sola soletta,
Vedi? I sentimenti allegri li condividerò… con te.


È banale, forse, ma davvero questa necessità di resa incondizionata, di rassegnazione totale che apre, o meglio riapre, l'animo alla condivisione del sentimento e alla risoluzione della solitudine, potrebbe essere tutto, tutto quanto.

E' la negazione del narcisismo, dell'idealismo fine a sé stesso, dell'arroccarsi sulle proprie posizioni. E' l'apoteosi del sentimento di accettazione e conciliazione come unica reale via di uscita alla solitudine umana.

Questa canzone va in sottofondo mentre la scena finale del film, su tramonto, dipinge l'ennesimo siparietto familiare, dove ognuno dice la sua, tutti si rimbrottano e sorridono nel più banale dei momenti, ma sono insieme, e sorridono, e il capofamiglia Takashi sempre vessato e messo in mezzo e alla ricerca di un'autorità mai recuperata e probabilmente mai avuta qui davvero sembra un titano. Un titano. In genere su questa scena mi commuovo, alle lacrime, e un pochino piango.

E così, dopo un lungo vuoto creativo o meglio produttivo, si arriva infine a La storia della Principessa Splendente. "Infine", forse letteralmente. Dunque, andiamo a stringere tutte le fila su:

LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE

Una rilettura che Takahata Isao fa del classico dei classici della letteratura giapponese, ovvero il "mukashibanashi" (racconto antico) intitolato: "La storia del tagliatore di bambù". Come si vede, già nel titolo c'è proprio un chiaro cambio di prospettiva. Soprattutto, Takahata dichiara che si tratta di una "attualizzazione" del classico, nonché di una "celebrazione della vita".

Stilisticamente, dopo la sperimentazione secondo me già eccezionale di Yamada-kun si giunge qui a vette non solo mai raggiunte prima, ma direi mai neppure immaginate da nessuno e mai eguagliate poi. Parlando di animazione tradizionale, potrebbero essere delle vette destinate a mai più sfiorarsi. Lo dirà il futuro. In ogni caso, l'impatto grafico e la portata comunicativa visiva di questo film mi hanno completamente investito.

Se ne potrebbe dire davvero molto, dello stile. Takahata stavolta non si è risparmiato sui suoi obiettivi e sulle motivazioni delle sue scelte estetiche e formali. Ma in questo thread, andiamo piuttosto a focalizzarci sul contenuto, sul significato della pellicola, con ordine, partendo da principio. Dunque, lo slogan UFFICIALE del film è:

"Il perpetrato delitto e la pena di una principessa"

Sì, è una citazione da Dostojevski. E ci torneremo. Ma procediamo sempre con ordine, perché qui l'autore parla con grande intensità tramite simbolismi narrativi archetipali, che sono schietti, ma così facilmente trascurabili. Coi classici veri capita sempre così. D'altro canto, prendendo qui le mosse dalla rilettura de La storia di un tagliatore di bambù, pur nel tentativo di modernizzarla, era ovvio che questo nuovo film si muovesse più schiettamente sul filo dei massimi sistemi, degli archetipi.

Mi si permetta dunque di fare un primo punto intorno alla storia, intorno alla fabula, anche perché pur con tutte le assonanze che i vari classici umani sempre riservano ai lettori onesti sparsi tutt'intorno al mondo, il testo di partenza non è di tradizione nostrana.

Ne "la storia di un tagliatore di bambù", il tagliatore di bambù in questione, persona di umili origini e costumi, trova una splendente pollicina in un fusto di bambù da lui reciso. La piccola pollicina, dalla crescita e dalle virtù sovrannaturali, diverrà una fanciulla splendida, così splendente da richiamare fama e fortuna intorno a sé e alla sua famiglia adottiva, allevata ai più alti ranghi dell'aristocrazia Heian, mentre lei rifiuterà tutti i sempre più elevati pretendenti terreni finché non se ne tornerà sulla Luna, da cui si scoprirà che proveniva.

Questa è la storia "che tutti i giapponesi conoscono", come ha detto e dichiarato Suzuki Toshio. Ma Takahata Isao ha espressamente detto che per lui uno dei punti mai chiariti della storia originale è: perché Kaguya viene sulla Terra, e perché torna sulla Luna? Nel suo film, il regista ha anche inteso dare risposta — ovvero spiegazione — a tutto ciò, modernizzando e analizzando la figura di Kaguya affinché potesse divenire una rappresentante delle nuove generazioni.

Quindi che cosa succede invece nel film di Takahata Isao, ricostruendone i fatti narrati in ordine cronologico/fabulistico?

Nel mondo "puro" della Luna, che è una sorta di al di là atarassico di buddhismo amidista, dove il sentimento è peccato, Kaguya vede *piangere* una selenita che era stata in visita sulla Terra, ed evidentemente ne portava in seno un'eco di ricordo. Una scoria, direbbero i seleniti. Questo personaggio che si vede in un flashback proviene da un racconto del ciclo "hagoromo densetsu" (Le leggende della veste di piuma) — che è citato nella versione "lunare" della canzoncina (filastrocca) di cui i bimbi e Kaguya nel film.

Ad ogni modo, il DELITTO di Kaguya è: avere desiderato, ambito la turbativa del sentimento.

E il susseguente CASTIGO di Kaguya è: farglielo provare. Fargli provare il sentimento, la passione.

Ovviamente in logica selenita, ma questo è il castigo. E a ben vedere, "passione" vuol dire "patimento", vuol dire "sofferenza". Passione vuol dire sofferenza, ve lo ricordo. La passione di Cristo, tipo. Nella verità delle parole, nella verità della lingua, la verità degli uomini. In principio era il verbo.

E allora Kaguya castigata nasce bambina viva sulla terra e incomincia a sperimentare tutti i sentimenti. Ogni volta che ne sperimenta uno, letteralmente cresce. Soprattutto all'inizio del film questa cosa si vede e si sente. È una metafora davvero molto bella, dico io, dello sviluppo intellettivo di quella specie animale che chiamiamo "uomo". La scoperta, l'educazione, la crescita umana.

Succede poi che la bimba diviene fanciulla, e la vita che le si sta preparando non le piace più così tanto. Dopo un primo moto di violento rifiuto (la fuga in montagna d'inverno, quando messa nel baldacchino della debuttante lei si sentiva "non esistere"), un carbonaio le spiega la ciclicità della vita e Kaguya impara ad aspettare. Per poter aspettare, per ingannare il tempo, Kaguya inizia a rifiutare. Come Penelope, che tesse di giorno e disfa di notte aspettando un marito dato per morto. Ma qui Kaguya è piuttosto una fanciulla ormai in età da marito che gioca a nascondino con la vita che l'insegue, e dapprima si diverte pure: "manda a spasso" i suoi cinque altolocati pretendenti con una raffinata, quanto beffarda, arguzia. Faranno tutti una magra figura, ma quando l'ultimo e più sprovveduto dei cinque ci resta secco, Kaguya ha un crollo e si rende conto che non si era altro che rintanata in una finzione, una finzione di attesa, al punto che era lei stessa diventata una finzione. Sarà forse una cosa tutta mia, ma quando le in crisi distrugge il suo bucolico diorama creato in giardino della sua precedente dimora montana, io ci vedo un otaku che distrugge i modellini esposti sulla mensola. Tutto finto. E anche tutto finito, dopo la furia.

Ad ogni modo, dopo quel momento Kaguya è solo depressa. Praticamente morta dentro. Sembra essere passata da bambina a vedova in un sol passo, scavalcando tutta la vita di mezzo. Se ci ripenso adesso, la prima fase che ho qui sopra riassunto mi sembra proprio quella dell'otaku - il diletto del diorama, come una collezione di feticci d'infanzia, no? In fondo anche Kaguya aveva avuto un'infanzia serena e protetta in campagna. Anche da poveraccia, certo, ma per lei serena e accudita, tanto basta. La seconda fase, che inizia con la distruzione del diorama, mi pare la condizione dell'hikikomori - ovvero il ritiro dalla vita, il chiudersi in sé stessa e nello spazio proiettivo di sé stessa.

Ed è in questo stato di stasi che compie l'ultimo, estremo rifiuto: rifiuta l'imperatore, e subendo la sua violenza rifiuta la vita stessa. "Non voglio più essere qui!", pensa di gridare, ovvero, non voglio più essere nel mondo dei vivi, tra i vivi, in vita. È un suicidio, ed è senza appello. A nulla varrà pentirsi, dopo — questo verrà spiegato a chiare lettere, nel film.

Quindi potremmo dire che Kaguay, nel suo continuo rifiuto, da hikikomori che era già diventata finisce a suicidarsi. Sembra proprio il risultato del radicalizzarsi della sua fuga, della fuga della crescita in società che è la vita, che finisce con la morte autorichiamata sul sé. Come per Seita, quindi, esattamente come per Seita. Che invece che fare il bambino della sua famiglia che non c'era più sarebbe dovuto crescere un po' anzitempo in un giovane uomo per sua sorella e per sé stesso, no? E sopportare le durezze della vita in tempo di guerra, da orfano poi, per sopravvivere e così vivere. Certo, "facile a dirsi". Non sto accusando una persona vera, qui si parla di letteratura e del bene di riflessione e insegnamento che può discendere dall'analisi e dalla comprensione della buona letteratura.

In ogni caso, abbiamo qui un altro DELITTO compiuto da Kaguya: avere spregiato la vita, ovvero il turbamento, e invocato la quiete, ovvero morte. Il CASTIGO è ovviamente la morte stessa.

Questa volta, chiaramente, tutto in ottica terrestre. Prima dell'esecuzione della condanna, inesorabile, Kaguya fa in tempo a sperimentare un'ultima volta la vita. Dice bene con Sutemaru, prima di unirsi amorosamente a lui, che anche venir malmenati a sangue non fa nulla, anzi va bene, "se si ha la sensazione di essere vivi". Come si capisce, anche divenire l'amante del Mikado sarebbe andato bene, "se si ha la sensazione di essere vivi", no? E invece no, lei ha invocato l'oblio e l'oblio (i seleniti, Amithaba Buddha, e compagnia cantante - letteralmente) viene a riprendersela. Si nota che il delitto finale di Kaguya è l'inverso di quello iniziale, e così i suoi castighi. O meglio, le sue pene. Delitti e pene. Anche il titolo Dostojevski, in realtà, stava citando il nostro Cesare Beccaria, davvero. La traduzione italiana sbaglia perché passa dal francese.

In italiano, lo slogan del film sarebbe quindi correttamente: I perpetrati delitti e le pene della principessa.

E qui abbiamo chiuso un primo cerchio e siamo arrivato a un punto, quindi...

RIASSUNTO CONCETTUALE:

Kaguya, uno spirito che dalla Luna, o Terra Pura, regno dell'atarassia spirituale, scorge un'ombra di emozione sul viso e nel canto di un altro spirito selenita che aveva visitato la Terra, e ne è intrigata al punto da compiere il delitto di desiderare quell'emozione, quella passione, quel patimento. La sua pena è venire precipitata dai Cieli sulla Terra a sperimentare le emozioni, le passioni, il patimento di questo mondo a tinte sgargianti. Nasce bambina sulla Terra dove sarà crescita e amata dal tagliatore di bambù e sua moglie, crescendo e vivendo e sperimentando gioie e dolori della vita umana. Non le reggerà, fuggirà e si spezzerà (come chi dice "mukatsuku") al punto di richiamare la morte su di sé e tornare così "a miglior vita", quella della stasi atarassica lunare. Rimpiangendo il suo ultimo delitto e la pena finale inflittale.

Bene fin qui. Il film è questo, i fatti narrativi sono questi.

Dunque, enucleata la trama e l'intreccio de La Storia della Principessa Splendente, riprendiamo dunque il discorso generale del pensiero dell'autore, e della sua evoluzione comunicativa.

Questo film sembra mettere in scena schiettamente prima due estremi contrapposti: da una parte la strada del pensiero puro, senza emozione e senza memoria, ovvero della stasi che è la morte, dall'altra la strada delle passioni vivide e delle loro memorie, ovvero del divenire che è la vita.

Ovvero, da un lato ci sono i seleniti, identificati con l'aldilà del buddhismo amidista, e dall'altra la vita di chi nasce in terra per vivere, come pure fanno "gli uccelli, gli insetti, le bestie" (sic — ma si potrebbe aggiungere anche "i tanuki"), e umanamente parlando sperimenta nel vivere tutta la gamma di gioie e dolori.

Nelle sue parole, proprio a cavallo del suo "secondo delitto e del suo secondo castigo", Kaguya fa infine esplicita apologia di una vita umana intesa come nata e destinata ad essere vissuta, disprezzando con veemente avversione la sfera del pensiero puro / morte / assenza di passioni che le viene proposta dalla selenita che le offre lo hagoromo (veste di piuma).

Allo stesso modo, prima di arrivare al tracollo, Kaguya aveva detestato (negato, rifiutato) i formalismi della corte (Heian), opposta alla vita contadina che la protagonista aveva provato da bambina.

Ebbene, la visione di questo film, oltre ad avermi incantato, mi ha profondamente turbato. Ma non come Yamada-kun, che mi ha scosso ma non mi ha lasciato interrogativi. In Kaguya c'era qualcosa che non mi tornava. E ha continuato a non tornami per tre anni. Ci ho pensato per tre anni. Ho cominciato a mettere a fuoco "il problema" nell'estate del 2017. Ma sono inciampato. Solo adesso, nel 2018, credo di avere infine messo i pezzi insieme per bene.

In primis: di certo Takahata ha un odio profondo per il buddhismo amidista, il buddhismo che promette una "miglior vita" dopo la morte, una "terra pura" dove sono mondate tutte le sofferenze della vita umana e terrena.

Qualche spunto per i miei connazionali: anche nel cristianesimo, quello vero/originario, è più o meno lo stesso. Vi ricordo sommessamente che si usava dire, per "morire", passare a MIGLIOR vita. Per la morte si usava dire "lasciare questa LANDA DI LACRIME". Mi rendo conto che in un epoca edonista come la nostra è sinanco difficile ricordarselo, ma in tempi in cui la vita era più dura, più grama, più agra, era pacifico nel messaggio cristiano che la vita terrena fosse una sorta di rito di passaggio per guadagnarsi il regno dei cieli, e lì era la pacchia. Chi ha studiato un po' di storia del paleocristianesimo ricorderà che il Natale era la Pasqua, ovvero il "dies natalis" è il giorno della nascita AL REGNO DI CRISTO, ovvero il giorno della morte terrena. I cristiani di Roma, dapprima, festeggiavano nelle chiese ipogee la morte dei loro cari con grandi banchetti, detti refrigerium, e ancora oggi in molti luoghi del meridione d'Italia è usanza offrir banchetto ai congiunti del morto. E ancora oggi un banchetto a buffet lo si chiama "rinfresco", perché nelle chiese ipogee era umido e fresco, sì.

Ora, Takahata odia davvero tutto ciò, questa mentalità che spregia la vita in terra e promette chissà quale litofanica ultraterrena pace eterna. Ricordo ancora che in Ponpoko, gli amidisti sono dei rimbambiti che vanno a suicidarsi cantando litanie dementi — seguendo il povero Pelato di Yashima.

Quindi, ancora, "non si deve fuggire!" in alcun modo, non c'è rifugio, bisogna abbracciare la vita umana in quello che è, in tutte le sue sfumature, belle e brutte, perché gioie e dolori sono parimenti VITA. Questo mi pare proprio il filo rosso di tutti i film di Takahata che ho cercato fin qui di analizzare, declinato in vari modi e maniere. E allora, se i vicini Yamada erano nei cinema giapponesi proprio sul terminare del millennio passato, direi che dopo tre lustri la piega presa dalla società postmoderna proprio non possa garbare a Takahata Isao, e provo a immaginarmi con che animo avrà creato la sua Principessa Splendente. Insomma, capisco che Takahata Isao sia sempre più scioccato da una società contemporanea fatta di giovani che, rintanandosi, asserragliandosi nei loro pur vacui idealismi infantili, sembrano tutti "rifiutare la vita", ovvero "negare la vita", ovvero "fuggire della vita".

Ma insomma, Takahata Isao è arrivato al punto di predicare agli uomini di vivere come "gli uccelli, gli insetti, le bestie", piuttosto? Possibile E' proprio questo il punto di interpretazione del film che mi lasciava sempre perplesso, e su cui sono inciampato malamente. Perché gli esseri umani non sono uccelli, né insetti, né bestie e neppure tanuki. Sono esseri umani, sono esseri medi. Difatti anche l'infanzia di Kaguya, spesa in campagna, non era certo una vita vissuta come una bestia. In campagna Kaguya scopre la vita e viene educata, le si insegnavano cose, le si spiegavano cose. Era un'educazione contadina, ma un'educazione comunque. Non sittiamo parlando del formalismo della corte Heian, non stiamo parlando dell'educazione che poi tenterà di impartirle Sagami, ma anche la campagna ha il suo formalismo, e i suoi rituali umani — oltre che naturali. Questo è fondamentale. Anche la campagna, ci aveva infatti spiegato Toshio, non è esente da un determinato livello di influenza umana. La campagna non è il bosco montano selvaggio, la campagna è comunque un ambiente colonizzato e plasmato dall'uomo INSIEME alla natura, e così un contadino non è una bestia.

Per analizzare bene questo punto focale di interpretazione del film dobbiamo attenerci al testo, leggerlo nel dettaglio. Non voglio discolparmi per aver incespicato, per avere dubitato di Takahata Isao, ma ritengo che nel testo ci sia quantomeno un punto cardine che risulta possibilmente fraintendibile, ovvero: Principessa, poi Principessa Splendente, voleva proprio vivere come Gemma di Bambù. Voleva vivere come una contadinella spensierata. La formalità della corte Heian, della vita di corte, proprio non le andava a genio. E quel che quella vita gli offriva, dai pretendenti macchiette sino all'imperatore, non facevano per lei. Così lei rifiuta tutto e tutti, rifiuta la vita, si chiude in un inganno di finzione formalistica tutta sua, e alla fine "si spezza" e richiama su di sé la morte, anzitempo.

Insomma come una bambina viziata, che diviene una ragazzina viziata, poi una specie di otaku e quindi una sorta di hikikomori e poi si ammazza.

Ero arrivato a questo punto. Tutto sommato il ragionamento filava. Ma c'era una cosa che non mi tornava. Mi sembrava che Kaguya, in punto di morte, davvero predicasse che le persone devono vivere come gli animali. Mi sembrava che lei dicesse proprio di essere nata per vivere come "gli uccelli, gli insetti, le bestie".

Ma a ben vedere questo mio dubbio era infondato. Per ben due motivi.

Uno, è interno al film stesso: quando Kaguya si danna e si pente, quando dice che "era venuta al mondo per vivere... come gli uccelli e le bestie", poi non è che maledica il padre per averla portata a corte. Maledice sé stessa per la sua fuga. Non dice "dovevate lasciami in campagna a fare l'animale", dice "che ho combinato? mi sono solo negata e ho calpestato i desideri di mio padre".

Due, è esterno al film, riguarda l'opera tutta dell'autore, di cui parliamo: ovvero, Seita. Seita fugge, e fugge in delle difficoltà obiettive, è orfano di guerra. Nessuno ci dice che avrebbe dovuto pensare "che figata", ma Takahata ci dice che avrebbe dovuto sopportare, adattarsi, sopravvivere e vivere, senza negarsi alla società contingente e al mondo e quindi alla vita. Giusto? Quindi, anche ammesso che la vita di corte non sia una figata per Kaguya, perché Takahata avrebbe dovuto "dare ragione" alla sua inadattabilità, facendole dire "io dovevo vivere come un animaletto?". E in effetti, come dicevamo al punto soprastante, Kaguya rimpiange sé stessa e il suo rifiuto/fuga, non l'ambiente in cui pure è stata forzata.

Mi sono reso conto che il mio dubbio era infondato autocriticandomi e autocriticandomi, e così ho fatto l'unica cosa che si dovrebbe fare in questi casi: sono tornato al testo del film, al film. Per massimo di chiarezza rifacciamo insieme anche qui. Ve lo incollo:
KAGUYA Però… ora che sono giunta a dover tornare sulla Luna… mi sono finalmente ricordata…! Ma io, come mai… a quale scopo… ero discesa su questa terra…? E poi ancora…/ (DS) perché una canzone di questa sconosciuta terra… quella canzone, perché la conoscevo da tanto tempo prima?

SIGNORA (FC) Uccelli, insetti, e bestie poi…

KAGUYA Aaah…! Esattamente…! Eppure io… ero venuta al mondo per vivere…! Come gli uccelli e le bestie! (PIANGE)/ (COP) Non voglio andarmene via!
Questo è il testo del copione italiano. L'ho scritto io. Io stesso. E vi dico che sì, è fedele. Molto. Ogni singola parola, frase, pausa, tutto.

In particolare, la frase in grassetto è la cosa focale. Anche i puntini, non me li sono inventati, sono sul copione giapponese!

Quindi, ho rileggendo e risentendo la frase, sono arrivato a capire che io per primo avevo frainteso la frase portante di tutto il film. In che cosa, in che modo? E' presto detto: se prendiamo la frase in grassetto, quella centrale della scena e del film:

Eppure io… ero venuta al mondo per vivere…! Come gli uccelli e le bestie!

Capiamo che tutto dipende, ovvero dipende da "come si lega concettualmente", l'ultimo pezzo. Quel "come", intende "vivere come" o "ero venuta al monto per vivere, come...", ovvero: Kaguya sta dicendo: "ero venuta al mondo per vivere come le bestiole", o "ero venuta al mondo per vivere, come le bestiole [vengono al mondo per vivere]"...?

Il mio dubbio, il mio fraintendimento, il mio incespicare nasceva dall'aver inteso la prima, ma poi ho capito che avevo malinteso e che si tratta chiaramente della seconda. Ammetto che sintatticamente la cosa è un po' ambivalente anche in giapponese, come del resto resta nella fedele traduzione italiana. In giapponese è (da copione e nell'audio originali, entrambi):

ああ そうなのです…… 私は生きるために生まれてきたのに……! 鳥やけもののように……!

Questa è la trascrizione puntuale — spazi, puntini e tutto — del copione giapponese.

La similitudine è retta da のように, ovvero "come", o "così come". L'ambivalenza c'è. Volendo, la posizionalità giapponese è meno infingarda di quella italiana, perché il pezzo precedente chiude con: 生まれてきたのに che sarebbe "eppure ero venuta al mondo", non è "per vivere", quella parte in giapponese è prima, perché è 生きるために - nota: in italiano si perde che "vivere" (ikiru) e "venuta al mondo" (umaretekita) hanno lo stesso kanji, quindi è un po' che se dicesse "io ero venuta alla vita per per vivere", perché "nascere", in giapponese, ovvero "umareru", è un po' una forma verbale dall'aspetto potenziale o passiva di "vivere" (stesso kanji), come se fosse "nascere" = "essere fatto vivere". Adoro il giapponese, sì.

In ogni caso, ripensandoci, anche se l'ambivalenza ritengo permanga un po' anche in giapponese, credo davvero che l'ambivalenza ci sia anche lì. Per eliminarla, in italiano, avrei potuto usare una dislocazione e far dire a Kaguya:

"Eppure io… è per vivere che ero venuta al mondo…! Come gli uccelli e le bestie!"

Certo in questo modo in italiano l'ambivalenza sarebbe stata tagliata via del tutto, come in originale non è. D'altro canto, anche come l'ho messa, più "liscia" (come liscia è in giapponese), la pausa comunque spiega tutto, e vorrebbe far riferire la parte finale e tutto l'assunto precedente, alla principale della precedente, non alla sua subordinata finale.

Ma in definitiva il punto è che sbagliavo a dubitare di Takahata, che con Kaguya, non sta affatto dicendo che si debba vivere come le bestie. Sta dicendo che si nasce per vivere, così gli animali e così gli umani. E gli animali vivranno da animali, e gli umani vivranno da umani, e tutti vivendo proveranno gioie e dolori, ma bisogna adattarsi e sopportare e tirare avanti sempre, perché questa è la vita, e così dev'essere, finché non termina naturalmente (la vita del singolo) e si rinnova in nuove nascite, così perpetrandosi e eternizzandosi (la vita in sé).

E così direi davvero che tutto torna.

Torna con quello che dice Kaguya, che maledice sé stessa per aver rifiutato pretendenti, corte e vita essa tutta. Per aver vissuto di fuga nell'autoinganno.

Torna con Seita, che se la passava male, ma male è meglio di morte, e lui come Kaguya fugge e muore (e a pensarci non abbiamo altri casi così drammatici, negli altri film dell'autore).

Torna con Toshio, che in PoroPoro, giustamente ci dice e ci spiega che "la campagna" è comunque insediamento umano. Che "contadino" non vuol dire "animale allo stato brado".

Torna con i tanuki, i quali chi trasformandosi e chi vivendo da barbone, ovvero ognuno secondo le loro possibilità, si adattano e vivono. E non è che magari non fosse meglio prima, non è che forse Takahata non abbia un ideale bucolico, ma comunque non si scaglia contro ciò che l'avvento della modernità porta. Si scaglia contro chi si indurisce e fugge, nell'oltranzismo fin sucida (Gonta) o nella religione (gli amidisti).


Torna col fatto stesso che Kaguya, in campagna, veniva "educata dalla vita" e cresceva a ogni nuova scoperta. Letteralmente. In città tutto si cristallizza, e va bene che lei preferisse la vita bucolica. Anche Taeko l'aveva detto alla nonnetta. Ma comunque, anche in città, lei avrebbe dovuto adattarsi e vivere. E infatti di pente amaramente di non avere fatto ciò, non di essere stata strappata alla campagna.

Dunque, l'opposizione tra i seleniti e la vita di campagna non è diretta. Perché se i seleniti sono esseri di puro pensiero, il loro opposto perfetto sarebbero forse gli animali, quelli veri, quelli che non hanno autocoscienza e non sanno neppure di vivere, di essere in vita. Da un punto di vista umano, l'opposto dei seleniti sono gli uomini di carne e sangue essi tutti, a prescindere dal livello di formalità che vivono. Perché tra pensiero puro e vita senza animale senza pensiero, gli uomini sono nel mezzo, e sono nel mezzo con TUTTO il loro gradiente: dalla vita contadina, forse "più vicina" a quella animale, alla vita altamente formalizzata della corte Heian, forse "più vicina" all'ideale selenita.

E alla fine tutti i pretendenti di Kaguya erano, nei loro formalismi e nelle loro miserie, guidati dalle loro passioni: la volevano concupire! Se non è passione questa! Certo, erano cinque macchiette mediocri: il contaballe pure stupido, il creso venale e avaro, il samurai eroico pusillanime, il seduttore scaltro ma pisciasotto (primo duro colpo per Kaguya, prima ferita emotiva di inganno subìto), il ragazzino ancora mammone che ci rimette le penne (secondo duro colpo per Kaguya, senso di responsabilità e colpa). Qui Kaguya prende coscienza del suo essere un ammasso di finzione. Ma alla fine, pure l'imperatore stesso, molto più onesto e vero e concreto dei cinque pretendenti, viene rifiutato. Il ratto di Kaguya finisce in rifiuto tragico e poi tragedia, rifiuto assoluto, rifiuto della vita, ovvero suicidio e morte.

In definitiva, mi pare chiaro che Takahata ci dice chiaramente che Kaguya sbaglia a rifiutare tutta la vita che le viene offerta, che le viene data la possibilità di vivere, anche a corte. D'altro canto, quando rifiuterà infine l'imperatore, sarà un suicidio. Arriverà a rifiutare la vita stessa e a richiamare, inesorabilmente, la morte su di sé, ovvero il ritorno sulla Luna. E mentre se ne tornerà sulla Luna, suo malgrado ormai, tutti contempleranno il momento, tutti i vivi, imperatore incluso. Kaguya, che va letteralmente a sbiadire perdendo il colore del sentimento, ancora si pentirà, avrà uno sprazzo di memoria, accennerà a voltarsi verso quel mondo dalle tinte sgargianti che ha purtroppo rifiutato e perduto. Tutto sommato, è ben chiaro dov'è la ragione e dov'è il torto.

Quindi, nel fare il punto conclusivo, anticiperò dialogicamente i dubbi dei miei quattro lettori:

"Ma come, Kaguya non era infelice, non è una vittima? Non è "poverina"?"

Eh no! Così torniamo al punto di partenza: Seita è una vittima o un colpevole? E ormai sappiamo come la pensa Takahata, no?

Potrei intanto dire chi ama i tragici greci, o i miti greci, sa che il ratto della fanciulla è il principio di un sacco di vita, spesso anche di felicità. Nessuno ha mai chiesto ad Andromeda se Perseo le garbasse davvero, e a nessuno è mai interessato. Questa sì, forse, è una radice etologica della sociologia umana. Tanto poi nella dinamica domestica di quei due sicuramente Andromeda avrà soverchiato Perseo, no? Sono certo che anche Yamada Takashi lo sa.

Ma ancora: alla fine della storia Kaguya si pente. Fino all'ultimo, si pente amaramente. Dopo aver rifiutato i suoi pretendenti sin all'imperatore, dopo aver invocato la morte ed essersi già pentita di tutto, dice al suo caro amico d'infanzia Sutemaru che anche venire pestati a sangue "non fa niente", anzi "va bene così" fintanto che "si ha la sensazione di essere vivi". Il che torna col discorso generale che la vita sono gioie E DOLORI, non solo le gioie. Anche i dolori sono vita e vanno amati per questo. Questo dice Kaguya alla selenita. Come dire: "stai per lasciare questa valle di lacrime [e tornare al mondo privo di turbative emotive]" e lei ha infine capito che "no, piangere è bello, perché è un'emozione!"

D'altro canto, il discorso non cambia in tutti i film che abbiamo analizzato, dal primo all'ultimo: che Takahata abbia detto e dichiarato che per lui "tutto il punto di Hotaru no Haka è: "ma questo ragazzo, che cosa ha combinato?" è un fatto. Che nella sua intervista con Nosaka Akiyuki abbia argomentato sull'abnorme comportamento di Seita e sulla sua (di Takahata) "paura" per la parola "mukatsuku" è altresì un fatto. Se si va poi a guardare lo special di Yamada-kun, sottotitolato puntualmente in italiano, lì la cosa è ripresa e ancor più duramente nella critica a Mononoke Hime e a seguire: Takahata NON creda nel valore deglo idealismi. Al contrario, crede che gli idealismi siano al NEGAZIONE della vita, e che portino a forme di rifiuto della vita e fuga dalla vita, e crede che questo sia il male estremo. Tutto questo mi pare chiaro. Takahata Isao crede nell'adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita, SEMPRE E COMUNQUE, senza limiti. Si torna qui al discorso di Yamada Takashi. E al discorso di Takahata nei contenuti speciali di quel film. Takahata non ha una soglia, oltre alla quale "non si può accettare, quindi è legittimo fuggire". Non è la zia "cattiva" di Seita, e non era neppure la vita "formale" della corte Heian. Perché tanto, fuggendo da quelle, Seita e Kaguya fanno di peggio. Si rifugiano nella finzione: Seita nel "kazoku-gokko" (giocare alla famiglia), Kaguya nello "shoujo-gokko" (giocare a fare la ragazzina). Con Seita ci restano secchi prima la sorella e poi lui stesso, con Kaguya ci restano secchi prima il suo pretendente più giovane (e lei ha una crisi terribile) e poi lei stessa.

Insomma, ancora una volta "non bisogna fuggire dalla vita, mai, in nessun caso e in nessuna condizione".

Takahata Isao, che in vita ha conosciuto la morte (ricordo sempre: "ha vagato per giorni nei campi carbonizzati e nessuno gli ha dato neppure uno stelo di patata"), insiste sull'accettazione della vita per l'esperienza di vita. Non si tratta, come per l'illuminismo (che pure Takahata conoscerà bene, essendo laureato proprio in lingua ovvero cultura francese) di "vivere per la felicità in vita", ma di "vivere perché la vita, nelle sue gioie e nei suoi dolori, è tutto ciò che siamo chiamati ad esperire". Non è quindi "siamo nati per gioire", ma "siamo nati per gioire e soffrire".

Ogni umano, che sia in fascia bassa che in fascia alta si trova sempre nel mezzo tra divinità e animalità, credo debba trovare, fondare, rappresentare il suo equilibrato livello di formalismi e ritualità. Non credo che gli umani possano vivere senza, perché sanno di essere di essere vivi, di dover morire, e debbono creare da soli il senso della storia della loro specie e dei loro miseri singoli.

Sono punti su cui mi interrogo sempre.

In tutto questo vivere e morire, nella vita del singolo che finisce e nella Vita assoluta che continua in infinite rinascite, come cantano i bambini in coro nell'ultima strofa della filastrocca tema del film, proprio mente Kaguya sta altercando con la selenita, si inserisce altresì il discorso delle memorie della vita umana, che è un altro tema portante, nonché il tema della canzone di chiusura del film, di cui cercherò di dire (scrivere) quanto prima.

Per ora direi che il discorso sul contenuto della filmografia di Takahata Isao può considerasi concluso qui.

---------

NOTA CONCLUSIVA:

Anche Miyazaki Hayao non capiva Hotaru no Haka. C'è un'intervista dove lui tutto nervoso dice di non poter accettare il film, perché non capisce come Seita e Setsuko possano essere all'inizio degli spiriti pacificati invece che rabbiosi contro tutti.

Ma il fatto è che, per chi ha visto il docufilm Il regno dei sogni e della follia, il fatto è che Miyazaki Hayao era già quel tipo di bambino viziato tipo Seita, anche sotto la guerra. Era uno che stava "parecchio bene nel male", era un mammone con un sacco di soldi di papà che lavorava per l'esercito e lui gli faceva questioni etiche da ragazzino che era. Da vecchio Miyazaki sta a ancora a pensare al padre che dà il cioccolato a un bambino orfano di guerra, o al padre che non fa salire sul tre ruote una madre col neonato in fasce (nota: la scena ha generato l'incipit di Totoro). Miyazaki è stato quel tipo di bambinone mammone e viziato che è, in sostanza, un otaku. Se guardate il citato docufilm, lui nega veementemente di essere un otaku salvo poi giocare col modellino dello ZeroSen insieme ad Anno facendogli vedere l'hinerikomi (la manovra di combattimento aerei che, insensatamente, aveva già fatto fare a Porco Rosso, ma che notoriamente solo gli ZeroSen riuscivano ad eseguire). E ancora, tra il docufilm e speciale di Yamada-kun è proprio Miyazaki a dire: "Takahata da bambino vagò per giorni nelle rovine carbonizzate dalle bombe, e nessuno gli diede neppure uno stelo di patata" — sic. E ancora che "Il ricordo dei campi riarsi viene ancora a visitarlo, e lo sta conducendo in un luogo dove un pusillanime come me non potrà mai arrivare" — sic.

Essenzialmente, io credo che Miyazaki Hayao abbia la libertà relativa di un figlio viziato da una madre (un otaku), mentre Takahata abbia la libertà assoluta, perché libera anche dal sé, di un sopravvissuto che vive quindi come fosse già morto.

È strano, per me, perché sento entrambe queste componenti dentro me stesso.

---

EDIT 14mar2018: aggiornamento, revisione dei contenuti incorporando la mia 'rinconsiderazione' di intendimento.

EDIT 6apr2018: aggiornamento, integrazione delle parti pertineti originariamente scritte nel thread su otaku e hihikomori.
Ultima modifica di Shito il dom apr 15, 2018 10:42 am, modificato 19 volte in totale.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da dolcemind »

Sempre grazie per queste riflessioni che scuotono il cervello dal torpore della vita quotidiana.
Debbo ancora vedere La storia della Principessa Splendente e la guarderò con gli occhi della
tua critica. Mentre non posso che concordare sull'analisi fatta per
La tomba delle lucciole (di cui si è già detto tanto)
Ricordi a goccioloni ("Taeko [...] sia arrivata alla sua età adulta come "bloccata" da non meglio messe a fuoco aspettative infantili")
Battaglie tanuki d'epoca moderna Ponpoko (l'adattabilità è vita)

avevo visto i vicini yamada come una semplice caratterizzazione della società giapponese
La parte che magari non traspare all'esterno.
La scena della madre che divide l'immondizia da spargere nei cestini pubblici
perchè si è scordata di buttarla nel giorno di raccolta ad esempio nonchè
le tante scenette quotidiane mi hanno ricordato la nostra società occidentale con la differenza che noi
mascheriamo dietro orgoglio o lamentela di mal governo comportamenti esecrabili.
Caratterizzazione vista da un buon padre di famiglia.
Una società tutto sommato da salvare, forse l'archetipo della famiglia giapponese.

E' possibile che le due espressioni in contraddizione siano lo spirito del nuovo e vecchio Giappone
così come lo coglie Isao.
Aspetto di vedere La storia della Principessa Splendente.
Ti saprò dire di più.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Muska »

Ciao dolcemind ! :D
Solo un saluto per il piacere di ritrovarti, e aspetto con grande curiosità le tue opinioni su quell'opera che per uno spettatore delle mie possibilità è parsa per alcuni aspetti enigmatica o, per meglio dire, di complessa o comunque non completa comprensione.
Al solito, per fortuna, Shito e qualche altra bella mente qui mi hanno fornito elementi a dir poco preziosi di riflessione. :)
"Pur sprovvisto di soldati, e solo, combatteva il mondo e i suoi vizi in questo luogo". (Yasushi Inoue).
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Goo »

Non credo che Takahata ci voglia dire che Kaguya sbagli a rifiutare la vita, piuttosto che è il mondo a sbagliare, non riuscendo a dare la felicità ad una fanciulla pura come Kaguya, spuntata come una gemma di bambù; è il mondo che non è riuscito a mantenere la propria naturalità, ad essere la terra, la casa per uomini puri, non deviati dagli strati di pensiero autocosciente ma guidati dal sentimento più elementare ed istintivo.

Da qui non vedo l'imperfetta aspirazione di Kaguya verso una vita da bestie, ma l'innalzamento della libertà incosciente delle bestie sulla coscienza umana, che pensa alla morte e finisce per morire durante la stessa vita. L'unica "arma" è la fuga, la fuga verso la luna fantastica, l'immortale purezza, senza ricordi. Kaguya non ha sbagliato, ha agito per ciò che era.

La dimostrazione che l'uomo non può fuggire dalla sua misera condizione.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Sayonara no Natsu »

Ho letto più e più volte il tuo messaggio, e devo dire di averlo trovato davvero interessante! Tuttavia, sì, c'è un però...

Premetto che anch'io non sono del tutto d'accordo con Shito per quanto riguarda Kaguya Hime, e più precisamente sulla "critica" che muove alla visione a cui è giunto Takahata (una volta riordinati i pensieri vorrei scrivere qualcosa), tuttavia, almeno per quanto riguarda il fatto che nel film effettivamente ci sia una sorta di perorazione affinché non si "rifiuti" la vita, beh, devo dire che mi riesce difficile non convenirne. Kaguya era nata per vivere come gli animali, eppure era stata costretta ad accettare tutt'altra condizione. La vita pura da selenita, però, non è la reazione più sensata, la fuga non è comunque una soluzione per affrontare il peggior tipo di vita possibile (quella di corte), perché è proprio questa fuga a portare alla vera peggior vita possibile. La vita da selenita, in questo film, è semplicemente il peggio del peggio, il grado successivo alla vita di corte. Per dire questo io mi baso proprio su Kaguya, che anche se sa che è tutto inutile, non vuole ritornare sulla luna. Nel sogno/visione onirica/nonso in cui vola con Sutemaru, non è più la vita artificiosa di corte ad angustiarla, bensì è la luna, è l'immagine, il ricordo che ha fatto una scelta da cui non può più sottrarsi. Anche se proprio lei l'aveva invocata nel momento di estrema sofferenza (ma sofferenza umana, ciò non di meno!), cioè nel momento dell'abuso (in tutti i sensi) del Mikado, immediatamente capisce che persino quel sopruso era preferibile alla luna, al mondo puro. E difatti si dispera e fa quella faccia. E nelle sequenze finali del film, nonostante tutto quello che aveva passato, non è Kaguya stessa a voler restare lì, a non voler abbandonare tutto quello che aveva sulla terra, quindi puranche i suoi "persecutori", per quella grigia, asettica e perfetta vita da selenita? E non è sempre lei, sul tragitto per la luna, che, riacquisiti per un attimo i propri ricordi, guarda la terra - sì, proprio la stessa terra dove era stata costretta a vivere in quel modo per lei così terribile - con grande afflizione e rammarico?

Non so se concorderai con me, ma tutto ciò mi porta inevitabilmente a pensare che Kaguya alla fine avrebbe veramente preferito quel "mondo sbagliato che non riesce a dare la felicità a una fanciulla pura" (rielaborando un po' le tue parole) piuttosto che la luna. Di conseguenza, accettando che questo film rispecchi l'attuale visione del suo creatore, penso proprio che Takahata volesse dire, mostrando l'errore e il rammarico per esso di Kaguya, che non bisogna rifiutare la vita.


P.S. Questo film è proprio qualcosa di buffo: per scrivere questo messaggio ho dovuto ovviamente riportare alla memoria e concentrarmi su alcune parti del film, e, davvero, solo nel fare ciò sono stato scosso da brividi. ^^
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Takahata ha un odio profondo per il buddhismo amidista, il buddhismo -ovvero- che promette una "miglior vita" dopo la morte, una "terra pura" dove sono mondate tutte le sofferenze della vita umana e terrena.

Qualche spunto por voi: il cristianesimo, quello vero/originario, è lo stesso. Vi ricordo sommessamente che si usava dire, per "morire", passare a MIGLIOR vita. Per la morte si usava dire "lasciare questa LANDA DI LACRIME". Mi rendo conto che in un epoca edonista come la nostra è sinanco difficile ricordarselo, ma in tempi in cui la vita era più dura, più grama, più agra, era pacifico nel messaggio cristiano che la vita terrena fosse una sorta di rito di passaggio per guadagnarsi il regno dei cieli, e lì era la pacchia. Chi ha studiato un po' di storia del paleocristianesimo ricorderà che il Natale era la Pasqua, ovvero il "dies natalis" è il giorno della nascita AL REGNO DI CRISTO, ovvero il giorno della morte terrena. I cristiani di Roma, dapprima, festeggiavano nelle chiese ipogee la morte dei loro cari con grandi banchetti, detti refrigerium, e ancora oggi in molti luoghi del meridione d'Italia è usanza offrir banchetto ai congiunti del morto.

Ora, Takahata odia davvero tutto ciò, questa mentalità che spregia la vita in terra e promette chissà quale litofanica ultraterrena pace eterna. Sarà che, come ci ricorda MIyazaki Hayao, "Takahata da bambino vagò per giorni nelle rovine carbonizzate dalle bombe, e nessuno gli diede neppure uno stelo di patata" - sic. E ancora che "quel ricordo viene ancora a visitarlo, e lo sta conducendo in un luogo dove un pusillanime come me non potrà mai arrivare" - sic.

In Ponpoko, gli amidisti sono dei rimbambiti che vanno a suicidarsi cantando litanie dementi - seguendo il povero Pelato di Yashima.

Veniamo dunque alla Principessa Splendente.

Lo slogan del film è:

"Il perpetrato delitto e la pena di una principessa"

Sì, è una citazione da Dostojevski

Takahata ha espressamente detto che per lui uno dei punti mai chiariti della storia originale è: perché Kaguya viene sulla Terra, e perché torna sulla Luna?

Nel suo film, ha inteso dare risposta - ovvero spiegazione - a ciò.

Nel mondo "puro" della Luna, dove il sentimento è peccato, Kaguya vede *piangere* una selenita che era stata sulla Terra, ed evidentemente ne aveva un'eco di ricordo. Una scoria, direbbero i seleniti. Questo personaggio che si vede in un flashback proviene da un racconto del ciclo "hagoromo densetsu" (Le leggende della veste di piuma) - che è citato nella versione "lunare" delal canzoncina di cui i bimbi e Kaguya nel film.

Ad ogni modo, il DELITTO di Kaguya è: avere desiderato, ambito la turbativa del desiderio.

La PENA di Kaguya è: farglielo provare.

Ovviamente in logica selenita, eh!

Allora Kaguya nasce bambina viva sulla terra e incomincia a sperimentare tutti i sentimenti. Ogni volta che ne sperimenta uno, letteralmente cresce. E' una metafora davvero molto bella.

Succede poi che la bimba diviene fanciulla, e la vita che le si sta preparando non le piace più poi tanto. Dopo un primo moto di violento rifiuto (la [censura] in montagna d'inverno), un carbonaio le spiega la ciclicità della vita e Kaguya impara ad aspettare. Per aspettare, inizia a rifiutare: prima ci gioca quasi, e "manda a spasso" i suoi altolocati pretendenti con una raffinata, quanto beffarda, arguzia. Quando l'ultimo e più sprovveduto dei cinque ci resta secco, Kaguya ha un crollo e si rende conto che non si era altro che rintanata in una finzione, una finzione di attesa, al punto che era lei stessa diventata una finzione. Sarò io, ma quando le in crisi distrugge il suo bucolico diorama creato in giardino della sua precedente dimora montana, io ci vedo un otaku che distrugge i modellini esposti sulla mensola. Tutto finto.

Ad ogni modo, poi Kaguya è solo depressa. Praticamente morta dentro. In questo stato compie l'ultimo rifiuto, rifiuta l'imperatore, e subendo la sua violenza rifiuta la vita stessa. "Non voglio più essere qui!" - ovvero, non voglio più essere nel mondo dei vivi, tra i vivi, in vita. E' un suicidio, ed è senza appello. A nulla varrà pentirsi, dopo - questo verrà spiegato a chiare lettere, nel film.

Quindi abbiamo un altro DELITTO: avere spregiato la vita, ovvero il turbamento, e invocato la quiete, ovvero morte. La PENA è ovviamente la morte stessa. Questo chiaramente in ottica terrestre.

Prima dell'esecuzione della condanna, inesorabile, Kaguya fa in tempo a sperimentare un'ultima volta la vita. Dice bene con Sutemaru, prima di unirsi amorosamente a lui, che anche venir malmenati a sangue non fa nulla, anzi va bene, "se si ha la sensazione di essere vivi". Come si capisce, anche divenire l'amante del Mikado sarebbe andato bene, "se si ha la sensazione di essere vivi", no? E invece no, lei ha invocato l'oblio e l'oblio (i seleniti, Amithaba Buddha, e compagnia cantante - letteralmente) viene a riprendersela.

I perpetrati delitti e le pene di una principessa.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Goo »

Non riesco ad entrare nell'ottica del delitto e della pena.

Rifiutare la vita può essere un delitto per un otaku, ma quel tipo di messaggio non lo vedo passare attraverso la vita di Kaguya. Lei non fugge dalla possibilità di vivere, fugge (seppur ingenuamente) dalle "ingiustizie" che la costringono a vivere come non vuole vivere. L'opposto dell'otaku che sceglie volontariamente di privarsi della vita.
Potendo decidere per lei stessa, Kaguya avrebbe amato la vita senza fughe. Il suo sarebbe stato amore. Takahata non può punire né far passare come delittuoso il comportamento di una fanciulla con l'amore per la vita nel sangue, purezza spentasi in un mondo incastrato e ingabbiato dall'uomo stesso.

Che poteva fare se non fuggire?
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Goo ha scritto: ven ott 20, 2017 1:03 am Non riesco ad entrare nell'ottica del delitto e della pena.

Rifiutare la vita può essere un delitto per un otaku, ma quel tipo di messaggio non lo vedo passare attraverso la vita di Kaguya. Lei non fugge dalla possibilità di vivere, fugge (seppur ingenuamente) dalle "ingiustizie" che la costringono a vivere come non vuole vivere. L'opposto dell'otaku che sceglie volontariamente di privarsi della vita.
Potendo decidere per lei stessa, Kaguya avrebbe amato la vita senza fughe. Il suo sarebbe stato amore. Takahata non può punire né far passare come delittuoso il comportamento di una fanciulla con l'amore per la vita nel sangue, purezza spentasi in un mondo incastrato e ingabbiato dall'uomo stesso.

Che poteva fare se non fuggire?
Accettare il fatto che vivere è, appunto, gioire e patire - entrambi - e che le "ingiustizie" non sono altro che una forma di vita. Carezze e botte sono vita, parimenti. Accettare le ingiustizie, anzi approcciarsi ad esse con ottica di rinuncia (cfr. discorso nuziale di Yamada Takashi, cfr. la vita dei tanuki), e nel continuo esercizio di sopportazione e accomodamento realmente "vivere",

Il punto di vista che tu esprimi mi sembra precisamente quello che Takahata considera il frutto degli idealismi a là cinema fantastico (Mononoke Hime), e che porta alla mentalità di Seita, di Taeko, di Gonta per intenderci. E anche di Kaguya. Tutti loro, "viziati da un idealismo che si pensa di voler e poter praticare nella vita", insomma - dove la vita per Takahata è la negazione stessa dell'idealismo.

I concetti di 'giusto' e 'sbagliato' credo davvero siano delle fandonie religiose fatte per impedire agli animali umani di vivere <-questo è un pensiero mio, ma mi torna con il messaggio sempre espresso da Takahata Isao. Alla fine tutto soggiace a una prospettiva estetica (intesa in senso filosofico, ovvero etico/morale) individuale: ciò che trovo "sbagliato" è ciò che trovo "brutto", ovvero non desiderabile, repulsivo per me. Da cui il rifiuto del "mukatsuku" e la fuga. Ma questo rifiuto netto e aprioristico, causa di fuga, dove conduce davvero? Si evita il conflitto, ovvero il compromesso, che è transistasi dinamica ovvero vita, e ci si rifugia nella omeostatica quiete mentale, che è già di per sé una forma di morte, no?
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Goo »

Un mondo dove tutti penano ma vivono è proprio il dipinto del Giappone antico. Una società fondata sulla sopportazione, per l'appunto. Di regole, dettami, costrizioni. Vediamo della povera gente ai margini, con dell'oro avuto d'improvviso, correre verso la società, senza averne in cambio alcuna felicità tangibile, anzi.

Kaguya non può conformarsi ad una società come questa, perché non è vita. Lei che sta fuori, pura ragazza della luna, non capisce, non la aspira. Le basta la sua campagna.

Il fatto che il dolore sia parte della vita stessa è giusto, ma pone come requisito la libertà. La vita in uno spazio proprio, la padronanza delle proprie scelte. Kaguya non può vedere altro che la vita in natura come l'unica maniera per essere libera, pertanto la desidera, anche con la possibilità in essa di soffrire.

Ma non può far altro che desiderare di tornare sulla luna, finita in quel misero mondo reso schiavo e intristito dall'uomo.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

E quindi, perché Kaguya si pente tragicamente, quanto inutilmente, di aver invocato la Luna?

Nella tua logica, Seita è vittima invece che colpevole: "la zia cattiva..."
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Goo »

Si pente (diversamente dalla storia originale, se ricordo bene) perché ama una parte di mondo, quella parte in cui è cresciuta e di cui conserva ricordi felici. Così come una relazione di coppia finisce spesso con le lacrime di chi ha lasciato, e con il pentimento di averlo fatto.
E perché teme la morte come tutti gli uomini.

Kaguya fugge dalla vita, sì, abbandona ogni speranza, ogni tristezza ed ogni felicità, ma da lei la vita era fuggita molto tempo prima. Per questo mi chiedo come si possa far passare un messaggio volto alla vita, quando la vita ha prospettive del tutto prive di vita stessa. Vedo quindi un mondo incapace di ospitare la vita naturale, in cui il sacrificio di Kaguya, di Seita, non sono pene per i loro delitti, ma emblemi di una terra corrotta.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Penauts »

Anch'io la vedo pressapoco come goo
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Il punto che non capisco, però, è se si tratti di dire "io la vedo così, ovvero dissento da Takahata", ovvero pensare che sia Takahata a pensarla così.

Ovvero, ho la sensazione che il punto si sia come spostato dalla lettura del pensiero di un autore, che è Takahata Isao, ai propri sentimenti di spettatori dinanzi alla sua opera.

Voglio dire, che Takahata abbia detto e dichiarato che per lui "tutto il punto di Hotaku no Haka è: "ma questo ragazzo, che cosa ha combinato?" è un fatto. Che nella sua intervista con Nosaka Akiyuki abbia argomentato sull'abnorme comportamento di Seita e sulla sua (di Takahata) "paura" per la parola "mukatsuku" è altresì un fatto. Se poi andate a guardarvi lo special di Yamada-kun, sottotitolato puntualmente in italiano, lì la cosa è ripresa e ancor più duramente nella critica a Mononoke Hime e a seguire.

Come al solito, per discutere su ogni cosa è in primis necessario distingue i fatti dalle opinioni.

Takahata NON crede negli idealismi. Crede che gli idealismi siano al NEGAZIONE della vita, e che portino a forme di rifiuto della vita e fuga dalla vita, e crede che questo sia il male estremo.

Voglio dire, se ci mettiamo a compatire Kaguya che rifiuta i suoi pretendenti sin all'imperatore, ricordiamoci che la stessa Kaguya -DOPO, quando si è già pentita di tutto- dice al suo caro amico d'infanzia che anche venire pestati a sangue "non fa niente", anzi "va bene così" fintanto che "si ha la sensazione di essere vivi".

Il che torna col discorso generale che la vita sono gioie E DOLORI, non solo le gioie. Anche i dolori sono vita e vanno amati per questo. Questo dice Kaguya alla selenita. Come dire: "stai per lasciare questa valle di lacrime [e tornare al mondo privo di turbative emotive]" e lei ha infine capito che "no, piangere è bello, perché è un'emozione!"

Takahata sicuramente crede nell'adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita, SEMPRE E COMUNQUE. Si torni al discorso di Yamada Takashi. E al discorso di Takahata nei contenuti speciali di quel film. Takahata non ha una soglia, oltre alla quale "non si può accettare, quindi è legittimo fuggire". Non è la zia "cattiva" di Seita, non è la vita "formale" della corte Heian. Perché tanto, fuggendo da quelle, Seita e Kaguya fanno di peggio. Si rifugiano nella finzione: Seita nel "kazoku-gokko" (giocare alla famiglia), Kaguya nello "shoujo-gokko" (giocare a fare la ragazzina). Con Seita ci restano secchi prima la sorella e poi lui stesso, con Kaguya ci restano secchi prima il suo pretendente più giovane (e lei ha una crisi terribile) e poi lei stessa.

Dico, questa è la lettura dei fatti, mica interpretazione.

Anche Miyazaki non capiva Hotaru no Haka. C'è un'intervista dove lui tutto nervoso dice di non poter accettare il film, perché non capisce come Seita e Setsuko possano essere all'inizio degli spiriti pacificati invece che rabbiosi contro tutti.

Ma il fatto è che, per chi ha visto il docufilm Il regno dei sogni e della follia, il fatto è che Miyazaki Hayao era già quel tipo di bambino viziato tipo Seita, anche sotto la guerra. Era uno che stava "parecchio bene nel male", era un mammone con un sacco di soldi di papà che lavorava per l'esercito e lui gli faceva questioni etiche da ragazzino che era. Da vecchio Miyazaki sta a ancora a pensare al padre che dà il cioccolato a un bambino orfano di guerra, o al padre che non fa salire sul tre ruote una madre col neonato in fasce (nota: la scena ha generato l'incipit di Totoro). Miyazaki è stato quel tipo di bambinone mammone e viziato che è, in sostanza, un otaku. Se guardate il citato docufilm, lui nega veementemente di essere un otaku salvo poi giocare col modellino dello ZeroSen insieme ad Anno facendogli vedere l'hinerikomi (la manovra di combattimento aerei che, insensatamente, aveva già fatto fare a Porco Rosso, ma che notoriamente solo gli ZeroSen riuscivano ad eseguire). E ancora, tra il docufilm e speciale di Yamada-kun è MIyazaki a dire: "Takahata da bambino vagò per giorni nelle rovine carbonizzate dalle bombe, e nessuno gli diede neppure uno stelo di patata" - sic. E ancora che "Il ricordo dei campi riarsi viene ancora a visitarlo, e lo sta conducendo in un luogo dove un pusillanime come me non potrà mai arrivare" - sic.

Essenzialmente, io credo che Miyazaki Hayao abbia la libertà relativa di un figlio viziato da una madre (un otaku), mentre Takahata abbia la libertà assoluta, perché libera anche dal sé, di un sopravvissuto che vive quindi come fosse già morto.

E' strano, per me, perché sento entrambe queste componenti dentro me stesso.
Ultima modifica di Shito il sab feb 03, 2018 12:07 pm, modificato 1 volta in totale.
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Re: Il cinema e il pensiero di Takahata Isao, ovvero "Non si deve fuggire!" (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Primo post rivisto e ampliato, anche includendo testi di canzoni, ulteriori riflessioni e certi contenuti elaborati dal dialogo successivo intorno a Kaguya. :-)
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Muska »

Grazie davvero !! :)
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