"Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

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Shun
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

Il mio problema nella lettura di Shun (ma non era Twistor?) è che benché il suo discorso sia ben documentato e argomentato, lo trovo sempre troppo strutturato.
In realtà Shun è il mio nick usuale da tanti anni (non c'entra niente con Saint Seiya... a posteriori è un mix tra il giapponese Shin e il Sunyata del Buddhismo), Twistor l'avevo messo così perché suonava carino :lol: Gentilmente Heimdall mi ha permesso di cambiarlo.

L'importante è che sia chiaro il punto del mio discorso.
Però, però... il mio saggio, che non sarà un saggio "su Takahata Isao", ma "sul significato ovvero sul messaggio degli ultimi cinque film animati di Takahata Isao" non lo intitolerò "Ci si deve adattare!", ma "Non si deve fuggire!".
Sì, ma leggendo i post che hai scritto finora ciò che emerge è sempre e solo “non si deve fuggire” + “ci si deve adattare”.

Cito: Takahata sicuramente crede nell'adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita, SEMPRE E COMUNQUE.

Oppure: Quindi, anche ammesso che la vita di corte non sia una figata per Kaguya, perché Takahata avrebbe dovuto "dare ragione" alla sua inadattabilità, facendole dire "io dovevo vivere come un'animaletto?". E in effetti, come dicevamo al punto soprastante, Kaguya rimpiange sé stessa e il suo rifiuto/fuga, non l'ambiente in cui pure è stata forzata.

E ancora: E gli animali vivranno da animali, e gli umani vivranno da umani, e tutti vivendo proveranno gioie e dolori, ma bisogna adattarsi e sopportare e tirare avanti sempre, perché questa è la vita, e così dev'essere, finché non termina naturalmente (la vita del singolo) e si rinnova in nuove nascite, così perpetrantodosi e eternizzandosi (la vita in sé).

Per non parlare di questo: Potrei intanto dire chi ama i tragici greci, o i miti greci, sa che il ratto della fanciulla è il principio di un sacco di vita, spesso anche di felicità. Nessuno ha mai chiesto ad Andromeda se Perseo le garbasse davvero, e a nessuno è mai interessato. Questa sì, forse, è una radice etologica della sociologia umana. Tanto poi nella dinamica domestica di quei due sicuramente Andromeda avrà soverchiato Perseo, no? Sono certo che anche Yamada Takashi lo sa.

E anche: alla fine della storia Kaguya si pente. Fino all'ultimo, si pente amaramente. Dopo aver rifiutato i suoi pretendenti sin all'imperatore, dopo aver invocato la morte ed essersi già pentita di tutto, dice al suo caro amico d'infanzia Sutemaru che anche venire pestati a sangue "non fa niente", anzi "va bene così" fintanto che "si ha la sensazione di essere vivi". Il che torna col discorso generale che la vita sono gioie E DOLORI, non solo le gioie. Anche i dolori sono vita e vanno amati per questo. Questo dice Kaguya alla selenita. Come dire: "stai per lasciare questa valle di lacrime [e tornare al mondo privo di turbative emotive]" e lei ha infine capito che "no, piangere è bello, perché è un'emozione!"

Se è vero che anche tu osservi correttamente che Kaguya si pente di aver chiamato la morte perdendo così la vita con tutte le sue possibilità, ed è dunque questo il rimprovero di Takahata nonché il nucleo del film, secondo me poi ti perdi troppo a parlare dell’adattamento. Come chiunque può evincere leggendo i post precedenti parli esclusivamente di adattarsi, tant’è che la scena del dialogo e del volo con Sutemaru la analizzi solo secondo due direttrici:
1) Scena utile a dare un assaggio di vita a Kaguya prima della dipartita;
2) Dialogo in cui Kaguya dice che anche venire pestati a sangue "non fa niente", anzi "va bene così" fintanto che "si ha la sensazione di essere vivi".

Tutto il discorso sulla felicità e sulla possibilità di realizzazione di questa anche attraverso la libera scelta individualistica è assente. Eppure Kaguya non dice solo “non fa nulla” e “percezione di essere vivi” ma dice anche “avrei potuto trovare la felicità”. In quella scena parla di felicità ben tre volte.

KAGUYA: fossi stata con il fratellone Sutemaru io... forse... avrei potuto trovare la felicità.

KAGUYA: Proprio così, non è nulla... se si ha la percezione di essere in vita... di sicuro avrei trovato la felicità.

KAGUYA: Vi prego fatemi stare qui solo un altro poco! Con la felicità di vivere e gioire su questa Terra!


Nella tua analisi la felicità quasi non compare e quando compare risulta esclusivamente subordinata all’adattamento, giacché non fai mai menzione di possibilità individualistiche e non analizzi la scena con Sutemaru in modo esplicito. E ripeto, non parlo di egocentrismo o individualizzazione sfrenata. Eppure questa è l’unica scena per cui Takahata ha scritto un concept, mentre per i pretendenti e per il Mikado non ha scritto nulla.
Ovvero, io credo che il punto comune al messaggio dei film di Takahata,da Seita a Kaguya, non sia la "necessità di adattamento", ma "il non rifiuto, la non rinunzia alla vita umana, nella sua naturalità individuale e sociale". Non rifiuto, non rinuncia, ovvero - nelle mie parole - NON FUGA. Perché fuggire dalla vita" è un po' come "rifuggire la vita", no?
E infatti è quello che ho scritto. Il discorso di Takahata è a monte, non a valle. Il nucleo di Kaguya hime, ovvero il rimprovero di Takahata, è che Kaguya ha chiamato la morte su di sé rifiutando TUTTE le possibilità che ci possono essere in vita, quindi anche quelle di libera scelta personale.
E credo che questo "non rifuggire la vita" si declini in modi diversi a seconda delle condizioni. In una condizione di vessazione obiettiva come quella di Seita, chiaramente, la "non fuga" è il tenere duro, è l'adattamento a una condizione di vita più dura, più grama rispetto a quella a cui si era abituati. Chiaramente ancor più per i tanuki la non-fuga dalla vita è "adattamento" al cambiamento, in un modo che sta a cavaliere tra la sociologia e l'evoluzione naturale, quasi.
Ma per Taeko e Kaguya non si tratta di questo. Sono entrambe, con tutte le diversità storiche, due ragazze fortunate e viziate dal benessere. Per loro la non-fuga è il non rinchiudersi, il non rintanarsi nella rigidità di idealismi infantili che conducono al rifiuto dell'offerta di vita reale, anzi, precludono anche alla ricerca di una strada propria, ma vera!

Come diceva il mio amico Fabio Palumbo, sarebbe come un annullamento della "voglia di vivere" (wille) di cui Schopenhauer a totale sbilanciamento verso l'umana, individuale, solipsistica "rappresentazione" del mondo: il "giocare alla campagna di Taeko", il diorama bucolico dell'infanzia di Kaguya. Ma queste cose sono in realtà manifestazioni dell'istinto omeostatico ovvero mortifero che pure è latente nella psiche umana.

Quindi se Seita avrebbe "solo" dovuto tener duro, per sopravvivere alla guerra e continuare a vivere durante e dopo, Kaguya avrebbe forse potuto accettare uno dei suoi pretendenti, oppure magari dialogare col padre (che sempre l'adora) e così cercare una mediazione tra la vita che era stata predisposta per la sua adultità e quella a cui si sentiva di aspirare, oppure magari ancora cercare una via del tutto individuale, ribelle, ma commisurata alle sue reali possibilità.
Esatto. Ma questo lo stai scrivendo esplicitamente adesso. Nei post precedenti mica hai scritto che Kaguya poteva dialogare con il padre cercando una mediazione, oppure ribellarsi in modo commisurato alle proprie possibilità. Ora non dirmi che non è così, please.
Proprio questa è la critica che ti muovo. Sta tutta qui la differenza tra la mia e la tua interpretazione.

Ti ricordo che a Sayonara no Natsu hai risposto:
Ti do al volo uno spunto: a te nel film l'imperatore non sembra una persona del tutto genuina?
Quando alla fine lui lascia Kaguya come lei gli chiede, non mi colpisce tanto il fatto che lui, l'imperatore, si "abbassi a obbedire", quanto il fatto che poi le dice "credo comunque che per te la cosa migliore sarebbe divenire mia". Mi pare totalmente sincero, in quella frase. E col senno di poi, aveva assolutamente ragione. Nella situazione in cui Kaguya versava, certo il rifiuto dei cinque pretendenti macchietta era forse ancora comprensibile, ma rifiutare l'imperatore, nel momento in cui Kaguya comunque non aveva dimostrato la forza per spiegarsi al padre e perseguire una sua propria realizzazione di vita (essendo abbiente e amata in famiglia di certo avrebbe potuto cercare una SUA mediazione), l'imperatore sarebbe stato un ottimo partito "di vita". Tant'è che Takahata, coerentemente al Taketori Monogatari, ce lo fa vedere nel finale, affranto, che osserva la dipartatita di lei.
E col senno di poi, aveva assolutamente ragione.
No, non ci siamo proprio. “Assolutamente ragione” no, “relativamente ragione” va già meglio.
Takahata non fa mai un discorso a valle. Il punto del film è sempre e solo a monte.

Nella situazione in cui Kaguya versava l’errore è stato sempre e solo l’aver chiamato la morte su di sé. È solo questo l’errore. Anche quando lei si arrabbia con se stessa – "ma io su questa terra cosa mai mi sono messa a fare? Solo stizzirmi dicendo no al divenire proprietà di qualcuno. Ho soltanto calpestato i desideri di mio padre, ingannando il mio stesso animo con piccoli campi e monti fasulli." – non è assolutamente certo che lei si rimproveri per non aver detto sì al divenire proprietà di qualcuno, bensì è anche plausibile che lei si rimproveri per aver perso tempo a fare quel gioco (stizzirsi, dire no, calpestare, diorama) anziché mettersi a progettare attivamente qualcosa, ad esempio dialogando con se stessa e con i genitori.

Kaguya non aveva dimostrato la forza per spiegarsi al padre e perseguire una sua propria realizzazione di vita, è vero. Ma il discorso a posteriori per cui l’Imperatore sarebbe stato un ottimo partito di “vita” è vero solo a metà. Infatti l’errore di Kaguya non è l’aver rifiutato il Mikado, ma è l’aver desiderato di “non essere più qui”. Questo è l’errore.
Per fare un esempio concreto è come se una persona che subisce una violenza (bullismo, stupro, etc.) non regge e si suicida inevitabilmente, quando invece dovrebbe resistere, superare l'evento (magari con aiuto psicologico) e poi trovare la propria felicità. Il punto non è "adattarsi ai bulli e allo stupratore tanto è tutta vita", bensì il punto è "farsi forza per resistere a queste disgrazie, quindi superare l'evento e cercare attivamente la propria felicità". Dubito fortemente che Takahata sostenesse la violenza domestica, d'altronde Takashi Yamada afferma che: “Per quanto orribile un comportamento, fino a quando questo non sia il prodotto d'una cattiva intenzione, rassegnandosi, si può perdonare…!” La rassegnazione, la sopportazione e il perdono per mantenere la stabilità della vita in famiglia non sono applicabili indefinitamente contro ogni “orribile comportamento”, una soglia c’è ed è quella delle cattive intenzioni. Poi che nell'epoca Heian il Mikado avesse concubine che non si sono suicidate perché avevano ritenuto che quella condizione fosse un buon compromesso, oppure che esistessero donne pazienti come la prima moglie di Ishitsukuri non lo metto in dubbio, anzi come ho scritto nei commenti precedenti anche questi adattamenti fanno parte del film. Il problema è che tu hai polarizzato l'interpretazione in tale direzione.
Se Kaguya avesse semplicemente rifiutato l’Imperatore senza spezzarsi rivolgendosi disperatamente alla morte, i seleniti non sarebbero arrivati, lei sarebbe rimasta in vita e avrebbe potuto aprirsi alle possibilità della vita, cercando la propria felicità tra adattamento e libere scelte. Anche questo è un discorso a posteriori ugualmente valido. Però lei capisce troppo tardi questa cosa perché così vuole il pattern del Taketori monogatari. Takahata ha cambiato molte cose, ma il pattern rimane quello del racconto.
E invece no, perché la storia di Kaguya, nel film di Takahata, è una storia di rifiuti e chiusure successive. Tutte le cose che Kaguya "prova a fare" sono bambinate, sono scatti d'ira infantile, non è mai niente di edificante. Dapprima fa i capricci e rifiuta l'educazione cortese alla quale pure sarebbe stata portata (il talento per il koto), poi scappa come una pazza, ma quella fuga è tanto effimera che non si capisce neppure se sia un momento reale o sovrannaturale. Cosa impara? E ingannare il tempo, a giocare a nascondino con la vita.
Qui sono d’accordo.
Manda a spasso cinque disgraziati, crede di essere tanto in gamba e di essere tornata bambina, ma quando volteggiando sotto i ciliegi inciampa in un neonato chiedono scusa a lei.
Riguardo il volteggio sotto i petali di ciliegio stai polarizzando l’interpretazione. La cosa si può vedere anche in un’altra ottica: Kaguya gioisce sotto i petali perché è se stessa, ma quando riceve le scuse e vede i bambini correre si incupisce perché si rende conto che non sta più vivendo a modo suo. Tuttavia non se ne rende conto in modo davvero sensibile come avviene dopo aver invocato la morte. Ancora una volta il punto non è che lei non si sta adattando a corte, il punto è che lei è diventata passiva, quasi sedata.
Vede Sutemaru che viene pestato e non alza mano o voce. Si fa il giardino dell'otaku, che poi distruggerà rendendosi conto che "il suo gioco" è costato la vita di un giovinetto. Allora poi si rinchiude in casa tipo hikikomori, e quando arriva persino l'imperatore a desiderarla (il suo "abbraccio" mi pare metafora di uno stupro, onestamente), lei invoca persino il ritorno al nulla - ovvero si suicida.
Essenzialmente, da dopo il fagiano un poi, Kaguya è una ragazza viziata che "non ce la fa a vivere", né a modo suo né a modo altrui.
Sì, direi che vive passivamente.
Quanto alla scena della riunione con Sutemaru, a parte che mi piacerebbe tradurre più puntualmente le fonti citate da Shun, credo che il punto sia che una volta pentitasi amaramente del suo errore a "non aver vissuto la sua vita", Takahata decide di inserire una scena in cui Kaguya prima della morte ha almeno un singolo assaggio della vita che non è stata in grado di gustare appieno.
L'abbraccio tra i due in cielo mi è sempre parso una metafora dell'atto sessuale umano. Lei che riceve lui, lui che praticamente "entra" in lei. Una cosa molto naturale.
Ma anche tutta quella scena, come la prima rabbiosa fuga di Kaguya, vive sul filo del simbolismo allegorico e surreale. Volano davvero? O fanno solo l'amore nel bosco? Tabimba di certo non saliva le scale del cielo dopo il suo strike sui giorni nuvolosi. :-)
Ma non importa se è reale o simbolica, ciò che importa è che Takahata ha inserito questa scena, con tutti i dialoghi.
Ah, la moglie di Sutemaru si vede nella prima parte del film, se ci fate caso, è la bambina più taciturna e arruffata del gruppo. :-)
Sì avevo notato la presenza di una ragazza simile, tuttavia ripeto: non sappiamo niente di come si è svolta la relazione tra Sutemaru e la ragazza. Nulla.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

La prima cosa che sottovaluti è l'evoluzione del pensiero personale, e della sua chiarezza analitica, nel tempo. Per quanto analitico e basato su dati obiettivi, un pensiero critico è personale, soggettivo, in continua evoluzione. Specie in una dinamica di confronto dialettico come un thread su un forum pubblico, non so tu, ma di per me già nello scrivere qualcosa sto riconsiderando quel qualcosa. Che poi è una dei primi motivi per cui scrivo su un forum. :-)

La seconda cosa che sottovaluti è il concetto di "adattamento" in vita.

Dici che ho detto: "Takahata sicuramente crede nell'adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita, SEMPRE E COMUNQUE."

E lo dico ancora.

"adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita"

Ovvero, per capirci. se Kaguya voleva restare in campagna, una volta che si ritrova a corte, l'adattamento a questa nuova realtà non è subirla e tacere. La semplice "risposta" alla realtà è adattamento. Ovvero, il non-adattamento è quella negazione di vita che lei attua. Adattamento sarebbe stato abbracciare la vita di corte, ma anche cercare una mediazione, o persino un'alternativa reale sarebbe stato adattamento, perché sono cose che nascono dalla presa coscienza (riconoscimento) della realtà e sono vitalistiche, sono proattive. La "negazione" è l'atteggiamento psicologigo del "rifiuto passivo", denial - faccio finta che le cose non stiano accadendo, le scanso, le evito ma non le riconosco.

Per intenderci, se si viene attaccati in guerra, difendersi è adattamento vitalistico. Magari non si sarebbe voluti venire attaccati, ma è accaduto - la difesa è una risposta, indi è adattiva. Ovviamente l'adattivo è reale ma anche realistico: quello di Seita è infatti fuga non-funzionale, indi non è adattamento, ma negazione.
Riguardo il volteggio sotto i petali di ciliegio stai polarizzando l’interpretazione. La cosa si può vedere anche in un’altra ottica: Kaguya gioisce sotto i petali perché è se stessa, ma quando riceve le scuse e vede i bambini correre si incupisce perché si rende conto che non sta più vivendo a modo suo.
Ma quale "modo suo"? In quel punto Kaguya *non è più* una bambina. Se ci fai caso, prima di quella scena lei si lava la faccia dal trucco e le ricrescono pure le sopracciglia folte da pre-debutto. Ma ormai è cresciuta, obiettivamente. Quindi anche se si inganna di poter "fare la bambina" è solo, appunto, un inganno. Mi rendo conto che nel mondo degli adulti che vanno al cinema a vedere l'Uomo-Ragno è difficile accettarlo, ma l'inganno della propria età mentale è un autoinganno affine al ritardo mentale. E tutte le menate sul "fanciullino" sono -appunto- menate degne di Ludwing II di Baviera e altri ricconi stranulati morti suicidi mica per niente.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

La seconda cosa che sottovaluti è il concetto di "adattamento" in vita.
Dici che ho detto: "Takahata sicuramente crede nell'adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita, SEMPRE E COMUNQUE."
E lo dico ancora.
"adattamento e nella rinuncia dell'idealismo come apertura alla vita"
Ovvero, per capirci. se Kaguya voleva restare in campagna, una volta che si ritrova a corte, l'adattamento a questa nuova realtà non è subirla e tacere. La semplice "risposta" alla realtà è adattamento. Ovvero, il non-adattamento è quella negazione di vita che lei attua. Adattamento sarebbe stato abbracciare la vita di corte, ma anche cercare una mediazione, o persino un'alternativa reale sarebbe stato adattamento, perché sono cose che nascono dalla presa coscienza (riconoscimento) della realtà e sono vitalistiche, sono proattive. La "negazione" è l'atteggiamento psicologigo del "rifiuto passivo", denial - faccio finta che le cose non stiano accadendo, le scanso, le evito ma non le riconosco.
Meraviglioso come svaluti subito l’interlocutore.
Da quel che ho scritto finora dovrebbe essere chiaro che su questo concordo, Kaguya si chiude passivamente e fa finta di niente. Tuttavia il mio punto era un altro e francamente mi sembra che non leggi quello che scrivo, altrimenti avresti capito l’accezione con cui sto usando il termine adattamento. Però magari sono io che non spiego bene.

Mi cito: quando parlo di adattamento […] intendo sia la concezione in senso lato in cui l’individuo accetta alla buona un'opportunità di vita che gli viene offerta senza essere immerso necessariamente in uno scenario coercitivo, che quella in senso più estremo in cui l'individuo viene obbligato ad arrendersi al contesto sociale in cui si trova, accettando con rassegnazione che il proprio destino sia legato esclusivamente a un contesto specifico non modificabile, e.g. guerra, imposizione del matrimonio combinato (paesi islamici?), violenze psicologiche e fisiche.

Il termine “adattamento” da me usato fa dunque riferimento alla condizione in cui l’individuo accetta e si conforma micro-socialmente a quel che ha intorno alla buona (senso debole) o per obbligo (senso forte). Non ci sono altre possibilità, c'è solo accettazione.
Ho esplicitato la definizione proprio per farmi capire, proprio per distinguere il concetto da quello di adattamento psicologico (processo per cui al variare degli stimoli ambientali il soggetto risponde in modo adeguato), proprio per mettere in evidenza la libera scelta individualistica.
È ovvio che a livello zero c’è sempre una forma di adattamento biologico, a livello uno c’è l’adattamento psicologico, a livello due c’è l’adattamento macro-sociale e a livello tre c’è l’adattamento micro-sociale. In quest’ultimo livello, inteso come dimensione in cui si va a formare il posto nel mondo dell’individuo, si trova l’antitesi individualistica che dialoga dialetticamente con l’adattamento debole/forte di cui parlavo. Tra l’altro ho anche specificato che c’è una relazione dialettica tra adattamento e individualismo e che c’è un fenomeno di interdipendenza con il contesto. Viceversa l’individualizzazione ha anche un aspetto sistemico e quindi si trova anche a livello macro-sociale.

Dunque a livello tre e a un livello superiore ancor più circoscritto l’individuo non deve inevitabilmente adattarsi alla buona o per obbligo al contesto micro-sociale in cui si trova, intendendo con questo che non deve necessariamente conformarsi in tutto e per tutto alla struttura micro-sociale in essere, ma può distanziarsi da essa mediante libere scelte personali. Che è per l’appunto ciò che accade quando un individuo non si adatta allo status quo esistente ma individualisticamente si orienta verso o crea da sé nuovi stati di cose, da cui il mio citare Fiori d’equinozio con il matrimonio combinato e il matrimonio romantico, ma si potrebbero fare tantissimi esempi, solo che questo mi sembrava quello più simile a Kaguya hime.

Sono d’accordo che Kaguya nella sua chiusura passiva ha finito per giocare un gioco disadattato tutto suo, un inganno di cui poi si è resa conto alla morte di uno dei pretendenti, però da qui a dire che doveva solo adattarsi, ovvero per come l’ho inteso io che doveva solo conformarsi, non condivido. E ripeto: dai tuoi post precedenti è questo quello che emerge, perché non hai scomposto i pezzi analiticamente, non hai esplicitato le sfumature come stai facendo ora, non hai detto nulla sulla libera scelta, sulla felicità e sulla scena con Sutemaru. Questo è il punto, spero sia chiaro perché il gioco della discomunicazione è un po' noioso.

Detto ciò, se con questo:
La prima cosa che sottovaluti è l'evoluzione del pensiero personale, e della sua chiarezza analitica, nel tempo. Per quanto analitico e basato su dati obiettivi, un pensiero critico è personale, soggettivo, in continua evoluzione. Specie in una dinamica di confronto dialettico come un thread su un forum pubblico, non so tu, ma di per me già nello scrivere qualcosa sto riconsiderando quel qualcosa. Che poi è una dei primi motivi per cui scrivo su un forum.
Intendi dire che stai "rivalutando" la tua interpretazione, allora il dialogo è stato utile, significa che la critica è stata costruttiva. :)

Per quanto riguarda la scena dei ciliegi parlavo a livello simbolico. Il punto importante secondo me non è Kaguya che balla fisicamente sotto il ciliegio come una bambina, il punto è che Kaguya vedendo il ciliegio, ricevendo le scuse e vedendo quella famigliola percepisce una differenza tra ciò che lei sta vivendo a corte e ciò che desidera liberamente a livello inconscio e di cui quindi non si rende ancora conto. Tale cosa infatti emergerà a livello cosciente solo dopo il suicidio e l’incontro con Sutemaru, ed è allora che si esplicita il significato di “vivere a modo suo”, che non è inteso come fare la bambina, ma è inteso come un progetto di vita in cui individualismo e adattamento si intrecciano dialetticamente.

Ora, al di là di Kaguya hime, considerare per un adulto il ballo sotto un ciliegio o la visione di un cartone animato qualcosa di affine al ritardo mentale è sbagliato, se è vero che la percezione e l'interesse che si provano di fronte a qualcosa non sono fissi ma variano nel tempo, è anche vero che non c’è una verità assoluta comprovata a supporto di quanto affermi ma c'è perlopiù un pregiudizio legato allo spirito del tempo. Se da una parte mi dispiace dirlo, nel senso che io stesso non amo particolarmente una certa deriva relativista esasperata, dall'altra ritengo importante che certi pregiudizi siano stati estirpati, così un chirurgo, un ministro, un filosofo o un contadino possono ballare tranquillamente sotto un ciliegio in fiore o vedersi il film che gli pare per poi salvare una vita umana, fare politica, filosofare, o zappare la terra senza paura di essere presi per ritardati. E lo dico nonostante riconosca che la visione di un cartone animato a X anni è molto diversa dalla visione dello stesso a Y>>X anni, in quanto le emozioni e i contenuti vengono percepiti in maniera differente. Il punto è considerare il soggetto nella sua totalità e non per compartimenti stagni.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Shun ha scritto:TAKAHATA: Non è un essere lunare venuto sulla Terra che poi torna a casa. Lei è cresciuta sulla Terra, se posso dire in questo modo… e anche se lei ha tutte queste possibilità, non ne realizza nessuna e torna a casa, ciò che intendo è che in effetti muore.
HISAISHI: La Luna è il mondo dell’aldilà?
TAKAHATA: Sì. Questo ha senso.
Questi l'ho ritrovato nel dietro le quinte, traduzione diretta:

HISAISHI: Non è un'aliena, però non è una terrestre...
TAKAHATA: E' una persona della Luna che viene sulla Terra... e poi torna sulla Luna, però... beh, è stata allevata sulla Terra... ma anche se è stata allevata, è strano! Se si viene allevati davvero, si penserebbe di avere tante possibilità, ma lei non riesce proprio a realizzare queste sue possibilità, tuttavia torna a casa. E del ritorno si dispiace./ (stacco) / Si tratta della morte...!
HISAISHI: Ah, è così?
TAKAHATI: Sì.
HISAISHI: Ma allora, quel che si chiama Luna... è l'altro mondo?
TAKAHATA: È l'altro mondo.
HISAISHI: Lo è?
TAKAHATA: Già...!


(mi affascina la prima frase affermativa di Takahata divenuta negativa nella "traduzione" inglese)

poi:
Shun ha scritto: TAKAHATA: La venuta dalla Luna è la nascita, il ritorno su di essa è la morte. Prima di morire lei dovrebbe essere in grado di realizzare le proprie speranze, tuttavia non può. Lei torna indietro e muore. Questo è ciò di cui si pente. Lei voleva vivere. È come morire senza vivere pienamente.
TAKAHATA: Il (suo) venire dalla Luna a sarebbe il nascere, e poi... tornare sulla Luna è morire. Si potrebbe dire anche così. Beh, prima di morire... all'ultimo stadio... i punti importanti, no? Sarebbe bello che li realizzasse per bene. Ma una persona come Kaguya, riguardo di quelle cose, ecco... per le cose importanti, non ci riesce... a grandi linee, anche se un peccato, muore. Non è un peccato? Dunque, è questo che rimpiange./ [stacco]/ Significa che davero voluto vivere più a modo... è come quandi si muore senza essere riusciti a vivere la propria vita...

Anche qui, direi che nell'inglese ci sono molte omissioni. Ma la cosa cruciale è che in originale non si parla di "speranze" e neppure di "desideri" o "aspirazioni", ma di "punti important" di una lista, come le cose principali da spuntare, tipo:

-fare l'amore
-diventare madre
-crescere dei figli
-avere dei nipoti

cose così. In originale 要項 (youkou).

Voglio dire, io per uno (ok che sono tardo...) avevo frainteso tutto il film e l'autore per l'attribuzione di un termini di paragone/similitudine (...come gli uccelli e le bestie!). Figuriamoci cosa significa sentire l'autore che chiacchera con i suoi concetti maciullati dal tritacarne americano.

Si noti inoltre che mentre il primo frammento è Takahata che spiega il ruolo narrativo di Kaguya a Hisaishi, nel secondo sta spiegando agli animatori il punto d'inizio della scena del volo, ovvero lo stato emotivo da "ultimo desiderio" con cui la ragazza — già amaramente pentitasi del suo rifiuto finale / suicidio — torna alle montagne dell'infanzia, dove casualmente rincontrerà Sutemaru.

Il tono di Takahata è molto metanarrativo, come dire "non sta bene farla morire senza averle fatto assaggiare almeno una volta la vita che ha rifiutato" ai suoi collaboratori, parlando della necessità di inserire quella scena.

---

Sul documento di "concept" scritto da Takahata per la scena del volo, sono lieto (lol) di vedere che si apre sulla frase su cui ero inciamntato. Evidentemente era effettivamente cruciale, non era tutta una mia visione (phew!).
Ultima modifica di Shito il ven gen 08, 2021 7:47 am, modificato 1 volta in totale.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

Grazie per le traduzioni direttamente dal giapponese! In effetti ci sono diverse omissioni :grrr:
Tre cose:
- Puoi sistemare e adattare un po' le frasi? Ci sono alcuni errorini qua e là.
- Per completezza puoi condividere l'originale giapponese? Sarebbe anche un utile esercizio per osservare la traduzione dal giapponese all'italiano.
- Nella versione inglese si parla anche di vivere pienamente e se non ricordo male (non ho il DVD a portata di mano in questo periodo) viene detto più volte (tipo due o tre), mi pare lo dica anche un collaboratore. Nell'originale com'è?

Per quanto riguarda i "punti importanti/principali/essenziali" vuol dire tutto e niente. La lista che proponi non viene specificata da Takahata.
Quindi ti chiedo di argomentare questa parte:
Ma la cosa cruciale è che in originale non si parla di "speranze" e neppure di "desideri" o "aspirazioni", ma di "punti important" di una lista, come le cose principali da spuntare, tipo:

-fare l'amore
-diventare madre
-crescere dei figli
-avere dei nipoti

cose così. In originale 要項 (youkou).
Voglio dire, io per uno (ok che sono tardo...) avevo frainteso tutto il film e l'autore per l'attribuzione di un termini di paragone/similitudine (...come gli uccelli e le bestie!). Figuriamoci cosa significa sentire l'autore che chiacchera con i suoi concetti maciullati dal tritacarne americano.

Eh sì, questo è un bel problema.

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Per il concept ho considerato la prima pagina giapponese. Sì, la premessa è proprio quella battuta (vivere come gli uccelli), l'ho anche specificata tu sai dove.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Takahata parla in modo quasi sempre molto affastellato, fa pause e rincorse. Lo fa quando parla pubblicamente, figurarsi quando parla in privato (come nel "dietro le quinte" del film).

Ci sono sempre parti in cui inevitabilmente si va un po' a intuito, in cui certi passi del piano sintagmatico si colmano con la percezione diffusa. Il primo frammento, dove parla con Hisaishi, si capisce un po' di più del secondo, dove parlando con lo staff più in generale il regista è ancora più rilassato.

Non ho fatto una trascrizione puntuale e quindi non posso condividerla.

Nei due brani non ho trovato concetti di "appieno" - per vivere. Una volta Takahata dice "motto chantou ikitai" - voler vivere "più chantou", dove "chantou" è per bene, come si deve, ma anche "fino in fondo", tipo: "fare una cosa chantou", fare una cosa per bene. In genere Takahata insieme al concetto di "ikiru" usa l'avverbio "iki-iki", ovvero "vivere vividamente", "vivere vivacemente". Questo è scritto nella prima pagina del concept, ad esempio. Lo usa anche in varie interviste, e quando dice che lui vive "iki-iki" intende che apprezza anche il crescere dell'erba, hai presente. "iki-iki to ikiru" è chiaramente super-tautologico. Come dire "vivere vivacemente" nel senso letterale del termine "vivacemente", no? Credo sia una cosa molto personale di Takahata, legata alla cultura giapponese. Posso darti uno spunto: quando Yupa arriva alla Valle del Vento, alle bimbe tutte pimpanti che gli vanno incontro (perché salgono sui muretti), lui dice compiaciuto "genki desu ne!", ovvero "Energiche, eh?" - è il compiacimento di un anziano che vede dei giovani pieni di energia, vivaci, quindi sani. A Palermo gli avrebbero detto "come siete saporite!", non perché si usi il cannibalsimo, ma perché la frutta sana, bella, genuina è quella più saporita, no? Nella percezione linguistica, negli accostamenti semantici inconsci, c'è sempre un tessuto culturale-locale sotto.

Lo stesso discorso di "punti importanti" è culturale. Probabilmente se tu dicessi a una persona giapponese, di quell'età poi, che i "punti importanti" della vita sono altri che quelli che listavo ti riderebbe in faccia.

Esiste una percezione culturale, spaziale e temporale - perché la cultura è SOLO etnica, nient'altro. Per fortuna. Di questo parlavo a Tokyo con un amico docente di filosofia, mentre argomentavo che non, una cosa come la cultura "sekaikei" è una bufala ridicola, e lui concordava - per dire.

Credo che tu muova sempre da posizioni molto strutturaliste e pure postmoderne. Due cose con cui, nella mia vecchiaia ormai, non riesco e non intendo relazionarmi. Citare, citare, citare, fari i vari casi, i modelli, le opzioni logiche... mi sembrano ormai tutti castelli in aria, un giocare con le immagini dei concetti invece che un confrontarsi intensamente con le proprie idee di vero. Non ci riesco più, mi pare tutto vacuo e mi sento stupido nel farlo. Come un bambino che gioca con le figurine, tipo, ma nel grosso corpo di un adulto.

Quanto al discorso "da adulti se fai una cosa infantile sei ritardato", di recente parlavo con un amico giornalista - più grande di me, e non di poco - che mi chiedeva cosa fosse, in Kaze Tachinu, il "shiberia". li ho spiegato che è un dolcetto d'antan, una merendina. Allora lui mi chiede "e come mai allora l'amico di Jirou gli dice che lui è una persona strana a mangiarlo?".

Mi sono molto stupito della domanda. Gli ho risposto in maniera molto stringata e burbera, a là Miyazaki volendo, ma involontariamente: "beh, perché una persona adulta non mangia mica le merendine per cena, no? Se sei un adulto hai una vita regolare, fai colazione, pranzo e cena, e una moglie cucina per te quando rientri la sera a casa!" - infatti in quella scena Honjou annuncia che va a prender moglie. Perché è una persona normale, lui. A me sembrava una cosa ovvia, scontata, non c'avevo mai neppure riflettuto. Un adulto che torna a casa con i shiberia alla sera, è ridicolo! Ma che adulto è? Ecco perché penso che la "lettura" dei prodotti culturali stranieri sia difficile.

In ogni caso, questo è il modo migliore che ho di "argomentare" quanto cercavo di proporre alla tua sensibilità. Posso proporti spunti. Per dibattimenti puntali, ti prego di rivolgerti alla sterile accademia, o a interlocutori più omeostatici di quanto io già non sia. :-/
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

Eccomi. Ero fuori casa e quindi non ho risposto.

Per la questione di vivere vividamente/energicamente sono d’accordo, ho sempre inteso quel “vivere appieno” nel medesimo modo, sarà anche per via dello slancio vitale citato in seguito.

Sono d’accordo che la cultura è locale in varie dimensioni e penso che per Takahata i punti da te citati fossero importanti, dato che la famiglia viene rappresentata più o meno sempre nei suoi film, tuttavia il mio argomento non ricade nel “se dicessi a una persona giapponese, di quell'età poi, che i "punti importanti" della vita sono altri che quelli che listavo ti riderebbe in faccia”, in quanto non escludo dalla lista quei punti per sostituirli con altri, bensì integro a quelli anche altri punti come il lavoro, le speranze e i sogni di vario genere. Sì, si parla di punti essenziali e penso che anche per Takahata le speranze di una persona fossero tali, con moderazione.

La tua lista è riduttiva in quanto incentra tutta la realizzazione femminile sul versante biologico e casalingo, ma Takahata non ha mai esplicitato nulla di simile. Ad esempio se una donna non può avere figli biologici e se per qualche motivo non può adottarne uno non sarà né madre né nonna, ma non per questo la sua lista dei punti importanti sarà vuota e la sua vita risulterà un fallimento. Se da una parte questa mancanza sarà fonte di sofferenza, dall’altra ciò non deve impedire alla donna di vivere una vita vivida con punti importanti da realizzare.
Quando dico di fermarsi a monte con il ragionamento ciò che intendo è proprio questo. Ci sono delle soglie che devono rimanere incontaminate proprio perché si parla del pensiero e delle opere di un’altra persona, mentre a me sembra che tu le oltrepassi più volte proiettando il tuo sistema di pensiero con tutte le convinzioni, le argomentazioni e le interconnessioni. In tal modo consideri le sospensioni di giudizio e le caute ipotesi altrui “castelli in aria”, mentre lasci passare le tue considerazioni integraliste. E dato che scrivi che “se sei un adulto hai una vita regolare, fai colazione, pranzo e cena, e una moglie cucina per te quando rientri la sera a casa!”, non posso fare a meno di pensare che tu stia proiettando, almeno in parte, te stesso e le tue convinzioni nella lettura del film.
Ma tu hai parlato con Takahata del femminismo, oppure di cosa pensasse di donne come Ueno Chizuko o Rita Levi Montalicini (è il primo esempio che mi viene in mente, se non ti va bene sostituiscilo con un esempio affine giapponese) che ha vissuto per oltre 100 anni senza sposarsi né avere figli? No. E non ripetere ancora una volta che “il saggio è sui film di Takahata e non sul regista”, perché se da una parte è vero, dall’altra la risposta per certe speculazioni spinte che fai non si può estrarre dai film o da qualche intervista ma è intrinsecamente legata al pensiero e alla vita di un uomo giapponese che non conosciamo.

Se con interpretazione strutturalista intendi che considero solo lo spirito del tempo, la società, la cultura e tutti i fenomeni esterni che hanno contribuito a formare l’individuo Isao Takahata, sei fuori strada. È altrettanto importante la psicologia interna del soggetto e non l’ho mai esclusa dal mio pensiero. Anche la critica che muovi al mio presunto modus operandi postmoderno è sbagliata, non è così. Ma non importa, non devo giustificarmi e non intendo fingermi né sociologo né psicologo dato che non ho una laurea né un’esperienza attiva in tali campi.
“Mi sembrano ormai tutti castelli in aria, un giocare con le immagini dei concetti invece che un confrontarsi intensamente con le proprie idee di vero.” Il fatto è che non si parla di me, bensì si parla di Takahata e dei suoi film. Non devo proiettare me stesso, né tantomeno devo confrontarmi adoperando le mie idee di vero o esporre le mie preferenze personali, devo discutere di Takahata nel modo più neutrale e distaccato possibile.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Guarda, la questione è così poco "femminile" che -infatti- guardacaso Sutemaru, quello pieno di vita, ha preso moglie e fatto un figlio.

Perché mentre Kaguya giocava a nascondersi lui ha vissuto. Semplicemente.

E il regista non manca di farci vedere che, finito "il volo", lui si risveglia e ritrova il figlioletto che accoglie con amore paterno.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

E quindi?

Takahata parla di punti importanti, tu scrivi una lista e io ti dico che la lista è riduttiva e che ai punti da te citati se ne possono integrare anche altri con moderazione, come le speranze e le preferenze. Tu rispondi prendendo un esempio particolare, di cui tra l’altro sappiamo ben poco, e lo generalizzi per induzione. Pensando così il tacchino di Russell è stato mangiato.

Secondo Nishimura, dunque uno che con Takahata ha trascorso molto tempo, il matrimonio non è al centro della storia, ma è importante ciò che si può osservare attraverso di esso. In quest'ottica il film include anche una severa critica contro gli uomini autoritari che trattano le donne come se fossero cose e questo è uno dei temi universali che vengono trattati, tant’è che per un uomo potrebbe essere scomodo guardare il film.
Fin dall’inizio tu hai sempre difeso il Mikado e hai inteso che Kaguya avrebbe dovuto accettare perfino le botte e i soprusi pur di fare l’amore e fare figli, perché tale è il suo scopo in quanto femmina. Ma non è affatto così. Il punto è che Kaguya ha perso tempo vivendo in modo passivo e infine ha scelto di morire, mentre come rivela a Sutemaru "anch'io sarei sempre voluta tornare [...] mi sono sempre ricordata... di quando giocavo qui ... di tutti gli altri [...] fossi stata con il fratellone Sutemaru io... forse... avrei potuto trovare la felicità. [...] questo l'ho capito adesso."

È un film complesso che mette in evidenza molte cose, soprattutto ha lo scopo di far prendere consapevolezza a Kaguya e agli spettatori dello slancio vitale presente in ognuno, in modo tale da non vivere passivamente e non scegliere la morte quando ci si trova in situazioni difficili. In questi casi si deve resistere per poi orientarsi attivamente tra adattamento e libere scelte verso la felicità desiderata, progettando, coltivando e realizzando i propri punti importanti in modo commisurato alle proprie possibilità e all'ambiente circostante, ricordando che nella vita ci sono sempre gioie e sofferenze.

"Proprio così, non è nulla... se si ha la percezione di essere in vita... di sicuro avrei trovato la felicità."

Ribadisco inoltre quanto detto anche in altri messaggi: per Takahata socialità e famiglia sono punti importanti, ma non riduce la donna a una sorta di oggetto biologico e casalingo.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

"Fin dall’inizio tu hai sempre difeso il Mikado e hai inteso che Kaguya avrebbe dovuto accettare perfino le botte e i soprusi pur di fare l’amore e fare figli, perché tale è il suo scopo in quanto femmina."

Ma quando mai?

Credo tu stia davvero proiettando i tuoi timori di politicamente scorretto su quello che io esprimo. Stai leggendo quello che scrivo con una pochezza di significato che non mi appartiene. Ovvero magari la mia pochezza è persino maggiore, ma davvero non è così banale, trita, patetica. Davvero una frase rancida come "ridurre la donna a una sorta di oggetto biologico e casalingo" per me è vomitevole, ma non per il concetto che esprime, per il modo in cui lo esprime. Sembra una di quelle frasi fatte, con concetti preconfezionati, per cui Nanni Moretti prende a schiaffi un'intervistatrice in un film che non mi piace, pensa un po'.

Altresì trovo davvero risibile che pensare di sovrapporre i punti importanti della vita biologica umana come punti importanti della vita sociale umana, di una femmina umana nel caso, sia "ridurre la donna a una sorta di oggetto biologico e casalingo". Come ho cercato di farti notare, gli stessi "punti importanti" sono quelli che Sutemaru, esempio di vitalismo, ha invece espletato. Ho citato la tua frase con grande sforzo, spero si apprezzi, perché il tutto sembra un pensiero liofilizzato, tipo "gli arabi sono cattivi perché mettono il velo alle donne". Tutta questa idea di sudditanza della donna all'uomo, ovvero della femmina umana al maschio umano, non mi pare di averla mai espressa. Avevo anche cercato di fartelo notare. Semmai in tutto il film si parla di naturalità della vita umana, e fino al coro di bambini finale che riprende il tema musicale di tutto il film c'è il senso di "nascere - crescere - dare frutti - morire", dando fine alla vita individuale e eternizzando la vita nel suo totale. Così le piante, così gli uccelli, così gli uomini. Questo c'è, nel film, sì. Non mi pare ci sia nel racconto originale. Perché questa similitudine naturalistica, che è tipica di Takahata, viene probabilmente da MIyazawa Kenji, dalla sua mentalità a un tempo vitalistica e nichilista.

Ovvero stiamo parlando di quello che esprime Takahata Isao, un uomo della sua cultura e della sua età e della sua formazione. Oppure puoi dirmi che per lui l'emancipazione femminile è una cosa importante, e che fare i bambocci da adulti è una cosa bellissima. Certo.

De resto, i più accreditati commentatori di Miyazaki Hayao parlano sempre del suo "femminismo", laddove come spesso ripete nei suoi libri Suzuki Toshio "per Miyazaki il mondo è un mondo di maschi e femmine", e non fa altro che fare coppie e coppiette a tutte le età, sempre da amore al primo sguardo e contatto fisico intenso. L'apoteosi di tutto ciò è chiaramente Ponyo, per dire - ma ancora ci parlano del femminismo di Miyazaki, certo. Perché ha fatto la idol diciassettenne pura come una cinquenne che disegna idrovolanti e tutti si imbarazzano per quanto è carina, che viene messa come un trofeo in ballo per scommessa al pari di un saccone di soldi, ma il femminismo di Miyazaki, certo. Credo che le persone che scrivono queste cose, per capirci, non solo non capiscano nulla della mentalità e del cinema di Miyazaki Hayao, ma proprio abbiano un livello intellettivo così basso da non capire neppure cosa possano essere "sessismo" e "femminismo" oltre il livello del qualunquismo da quotidiano nazionale italiano, cosa che è un insulto forte.

Mi spiace, ma qui alzo le mani e mi ritiro dal dialogo, non tanto perché lo trovi sterile (lo trovo tale), ma perché è giunto a modi espressivi che mi ripugnano fisiologicamente.

Ah, un ultima cosa.

Se guardi i film di Takahata per "capire Takahata" non serve a niente. Ti stai trastullando, baloccando col pensiero.

Preferisco guardare i film di Takahata per capire cosa lui stia dicendo A ME, cosa di quei film e del loro messaggio possa riguardare la mia vita, come possa cambiarla, come possa migliorarla. Sennò, a che scopo cercare di capirli? Per "sentirsi bravo" nel convincersi di esserci riuscito? Questo io lo chiamo onanismo. Autocompiacimento. Narcisismo. Tutta roba buona per gli accademici di mestiere. Scienziati del pensiero. Nulla che mi piaccia, no.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

Immaginavo che sarebbe finita così. Ecco perché trovo "storti" i dialoghi virtuali.

La "frase fatta" sulle donne ridotte a oggetti biologici l'ho messa appositamente come provocazione, una sorta di iperbole estrema, in modo da ricollegarmi alla frase di Nishimura in cui parla di uomini che trattano le donne come cose.

Guarda, se dovessi analizzare personalmente un racconto appartenente alla cultura e alle usanze di un popolo indigeno che tuttora vive come tremila anni fa riporterei il contenuto della storia per quello che è, senza nessun politicamente corretto, né proiezioni personali. Come in un documentario. Questo per dire quanto poco mi interessi proiettare. Anche perché poi a falsificare le cose si finisce per creare delle idiozie abominevoli come il negazionismo dell'Olocausto. Quindi da parte mia non posso che condividere quando scrivi che "Preferisco guardare i film di Takahata per capire cosa lui stia dicendo A ME, cosa di quei film e del loro messaggio possa riguardare la mia vita, come possa cambiarla, come possa migliorarla." e lo sai, ne abbiamo già parlato. Niente balocchi di pensiero. Secondo me il tuo errore è sempre lo stesso: pensare che il messaggio di un film sia completamente e oggettivamente analizzabile e che ogni scena, ogni dialogo, ogni parola, ogni silenzio siano sempre accessibili completamente e oggettivamente dallo spettatore nella loro essenza pura, cosa che è nota solo all'autore del film e forse a coloro che hanno lavorato insieme a lui. Per noi penso che questo sia spesso (o forse sempre) infattibile, ciò che è possibile invece è avvicinarsi all'essenza del contenuto del film.

Il caso in esame è uguale, non lo voglio rendere politicamente corretto a tutti i costi, se Kaguya (Takahata) avesse lasciato intendere esclusivamente che pur di realizzarsi (e quindi vivere, così come anche Sutemaru ha vissuto) avrebbe accettato qualsiasi cosa, anche i comportamenti sgradevoli dei pretendenti o del Mikado, avrei riportato la cosa come tale. Ma non è così e pertanto l'ho specificato. Nishimura lo dice che nel film c'è anche una critica agli uomini che trattano le donne come cose, e lui ha lavorato e dialogato con Takahata, noi no. Tu hai criticato solo Kaguya, mentre il Mikado non lo hai mai criticato più di tanto, hai notato che la scena dell'abbraccio fa pensare a una violenza simile a uno stupro, ma ti sei fermato lì. Idem per i pretendenti macchietta.
Hai citato l'esempio di Andromeda e Perseo, hai scritto che per Kaguya l'imperatore sarebbe stato un ottimo partito "di vita", cosa che in parte ho appoggiato dato che nel film Takahata ha rappresentato o citato situazioni come la moglie di Ishitsukuri e le concubine del Mikado, poi c'è il riferimento al Genji monogatari in un'intervista fino ad arrivare ai matrimoni combinati reali, tutte situazioni accettate con vari compromessi tra cui quello di vivere una vita più agiata, tuttavia manca l'altro piatto della bilancia, ovvero una critica al comportamento di questi uomini e di queste situazioni, cosa invece menzionata da Nishimura e palese vedendo il film. Anche quando hai parlato del finale in cui il Mikado, affranto, osserva la dipartita di Kaguya, ciò che emerge dalla tua analisi è esclusivamente il dispiacere dell'imperatore per la morte della giovane quando con lui avrebbe trovato un ottimo partito di vita, senza menzionare la possibilità che in quella scena muta ci sia stata anche la volontà da parte di Takahata di criticare le coscienze dell'imperatore e dei pretendenti che hanno portato Kaguya a suicidarsi, i quali in quella scena muta potrebbero anche essere pentiti per il loro comportamento... tipo "ahi noi, cosa abbiamo contribuito a provocare", giusto per farmi capire. Essendo una scena muta, non vedo perché menzionare una cosa e tralasciare l'altra. Tesi e antitesi.
Quindi in mancanza di una forte critica da parte tua, forte tanto quanto la critica che hai focalizzato su Kaguya (che essendosi suicidata non manchi di specificare più volte che non è una vittima, bensì è colpa sua se non ha retto e non si è adattata, anche se in realtà quel carico di violenza prima psicologica e poi fisica avrebbe messo in difficoltà chiunque senza nulla togliere all'adattamento) ho cercato di farti notare la cosa a più riprese, fino all'ultima brutale frase fatta. In questo senso la mia è stata una provocazione atta a sciogliere possibili fraintendimenti che potevano nascere nella lettura del film. Perlomeno adesso hai risposto che non hai mai inteso la questione del Mikado e di Kaguya per come te l'ho scritta. Secondo me dovresti esplicitare molto meglio le cose nel saggio, proprio per evitare incomprensioni. E faccio notare che i fraintendimenti non dipendono solo da chi legge, ma anche da come un testo viene scritto. In questo senso i miei interventi sono sempre stati atti a proporre quante più critiche, contrasti e antitesi possibili mettendo in evidenza punti che meriterebbero approfondimenti e revisioni per renderli più intellegibili.
Quello che ho cercato di esplicitare è che, secondo me, Kaguya hime è un film complesso che mette in evidenza molte cose in modo dialettico: critica rivolta al comportamento passivo e al suicidio di Kaguya, critica verso il comportamento di quegli uomini che trattano le donne in modo autoritario come se fossero cose, l'importanza dell'adattamento e della sopportazione, casi di compromesso, e poi ancora speranze, preferenze e libere scelte, poi coppie, genitori e ciclo della vita, raggiungimento del culmine nel rappresentare la potenza della vita e lo slancio vitale, e ancora natura, società, sofferenza, gioia, pietà e perfino la memoria.
Tale visione complessa ritorna se pensiamo a Hotaru no haka, giacché Takahata ha affermato che non è un film pacifista perché fare un tale film sarebbe stato troppo difficile in quanto si sarebbe dovuto tenere conto di troppe cose. È la mentalità documentarista di Takahata che emerge, un uomo che nelle sue opere ha sempre cercato di rappresentare la società umana a tutto tondo e in modo realistico per permettere allo spettatore di riflettere.

In tutti i film Takahata mostra delle famiglie, dalle coppiette tanuki che si riproducono ai cinguettanti Yamada, e anche in Kaguya hime abbiamo esempi in tale direzione, come Sutemaru e la moglie e per certi versi anche i genitori adottivi di Principessa. Per dire, Takahata non ha rilasciato dichiarazioni sulla scena del volo, tuttavia chiedendogli se fosse una rappresentazione sessuale ha risposto che la scena si presta anche a ciò, cioè in essa si può anche riconoscere e afferrare l'essenza di tale atto. L'hai notato anche tu e io non ho mai messo in dubbio una sfumatura simile, anzi. La donna e l'uomo insieme creano la vita e non ho mai e poi mai inteso sminuire l'importanza di questo atto agli occhi di Takahata (o perlomeno da quel che emerge dai film). Un completamento che contiene in sé molte sfumature, dall'amore al sostegno reciproco, dal piacere alla felicità, fino ad arrivare alla nascita della vita. È qualcosa che per certi versi va ad attingere al miracolo dell'esistenza e che in termini quotidiani fa sperimentare l'altra parte del banco della vita, da figli a genitori. Ma questo non esclude dai punti importanti cose come le speranze e le preferenze, cose che, semplicemente, nella tua analisi non compaiono, mentre sono presenti nei film di Takahata.

Riguardo il femminismo io non ho scritto che Takahata o i suoi film sono tali, non lo so, non posso saperlo, ho scritto che sarebbe stato interessante sentire il parere del regista su queste tematiche. Motivo che mi ha spinto a citare la Ueno e la Montalcini. Inoltre Takahata era un intellettuale e aveva una laurea in letteratura francese, ha vissuto la guerra, poi il periodo di ricostruzione e le riforme sociali avvenute in Giappone, comprese quelle riguardanti il femminismo. Ovviamente io ho il mio pensiero riguardo queste tematiche, ma sarebbe stato interessante ascoltare qualcosa detto da Takahata dato che i suoi film sono pieni di personaggi femminili. D'altronde a me piacciono quasi più le interviste e i documentari che i film stessi.

Detto ciò, anche per me il dialogo si può concludere.
Ultima modifica di Shun il mer ott 10, 2018 11:26 am, modificato 2 volte in totale.
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shito »

Che bello. Mi rimangio con gioia il mio "ritiro" (a là Miyazaki?) e torno al dialogo che è tornato ai miei occhi gradevole e proficuo.
Shun ha scritto: dom ott 07, 2018 1:33 pm La "frase fatta" sulle donne ridotte a oggetti biologici l'ho messa appositamente come provocazione, una sorta di iperbole estrema, in modo da ricollegarmi alla frase di Nishimura in cui parla di uomini che trattano le donne come cose.
La provocazione ha sortito i suoi effetti, ma ribadisco, per la sua forma - non per il contenuto. Ovvero, tu potresti gioiosamente definirmi un talebano che impone il niquab alla consorte (perché l'hijab è poco), oppure il più crudele degli eugenetisti peggio del Doctor Mengele, nessun problema in questo. Mi hanno detto di peggio, su inet come in viso, ed è anche gradevole per me — non per egotismo, ma per amore di confronto sincero. Quello che mi aveva irritato era il cliché dello stampo dialogico.

Ah, sono convinto che la missione sulla Luna si sia fatta, che probabilmente ci siano pure arrivati, non so se tornati, ma parimenti mi sento abbastanza sicuro che tutta la trasmissione televisiva fosse una baraccata. D'altro canto le due cose (missione reale e spettacolo televisivo) sono due cose ben distinte...
Quindi da parte mia non posso che condividere quando scrivi che "Preferisco guardare i film di Takahata per capire cosa lui stia dicendo A ME, cosa di quei film e del loro messaggio possa riguardare la mia vita, come possa cambiarla, come possa migliorarla." e lo sai, ne abbiamo già parlato. Niente balocchi di pensiero.
Ottimo, il terreno è quindi spianato e fertile.
Il tuo errore però è sempre lo stesso: pensare che il messaggio di un film sia completamente e oggettivamente analizzabile e che ogni scena, ogni dialogo, ogni parola, ogni silenzio siano sempre accessibili completamente e oggettivamente dallo spettatore nella loro essenza pura.
In realtà a me sembra piuttosto che sia tu a fare ciò, perché sei tu che citi e riciti punti precisi e dialoghi. La mia percezione del tutto è molto più "diffusa". La mia percezione del tutto è —per capirci (?)— piuttosto "frattale" Credo invero che tu, recependo quello che io scrivo in base alla tua forma mentale, ne trai questa impressione - che è forse proiettiva.
se Kaguya (Takahata) avesse lasciato intendere esclusivamente che pur di realizzarsi (e quindi vivere, così come anche Sutemaru ha vissuto) avrebbe accettato qualsiasi cosa, anche i comportamenti sgradevoli dei pretendenti o del Mikado, avrei riportato la cosa come tale. Ma non è così e pertanto l'ho specificato. Nishimura lo dice che nel film c'è anche una critica agli uomini che trattano le donne come cose, e lui ha lavorato e dialogato con Takahata, noi no. Tu hai criticato solo Kaguya, mentre il Mikado non lo hai mai criticato più di tanto, hai notato che la scena dell'abbraccio fa pensare a una violenza simile a uno stupro, ma ti sei fermato lì. Idem per i pretendenti macchietta.
Allora, chiaramente Nishimura è la persona che è stato a più stretto contatto con Takahata durante la lavorazione di Kaguya, e io per uno vorrei conoscerlo per ringraziarlo per questo, così come a Venezia ringraziai di persona Suzuki per tutti i film realizzati da Miyazaki. Ti seguo.

La critica che riporta Nishimura, che non dimentichiamo produttore, e produttore allievo di Suzuki, e quindi pubblicitario per antonomasia dei film che produce, è piuttosto chiara in una frase di Kaguya alla sua ancella. A cui l'ancella, che rappresenta nel film il "senso comune", pure risponde con una chiosa alquanto relativizzante.

Non ho mai criticato il Mikado, e in realtà non ho mai criticato neppure Kaguya. E' il film che è una critica al comportamento di Kaguya, in ultima analisti tragicamente fallimentare, e comprensivo di un profondo pentimento del soggetto stesso (Kaguya).

Vediamo crisi e crisi di Kaguya, almeno quattro (nell'ordine: nominazione, morte di Isonokami, rifiuto del Mikado, pentimento finale).

De factu, Kaguya è una ragazza che non riesce a vivere la sua vita. C'hai fatto caso che fin dalla sua prima crisi, quando crolla tra le nevi, compaiono gli spiritelli lunari che poi accompagnano il corteo celeste alla fine, quelli che "mondano" ogni cosa su cui si posano? [Io l'ho notato dopo un bel po'.]

La sensazione è che già ai tempi della sua prima crisi, Kaguya fosse lì lì per rifiutare tutto, per rifiutare la vita, per suicidarsi mentalmente. :-(

Il film non ci parla del Mikado. Ma in accordo col testo originale, alla fine ce lo fa vedere serenamente triste a contemplare la dipartita di Kaguya, non si sta strappando i capelli rimpiangendo il suo proprio "delitto".

Questo non sono io, no? questo è il film.

Sono i puntini che io cerco di unire.
Hai citato l'esempio di Andromeda e Perseo, hai scritto che per Kaguya l'imperatore sarebbe stato un ottimo partito "di vita", cosa che in parte ho appoggiato dato che nel film Takahata ha rappresentato situazioni come la moglie di Ishitsukuri, per non parlare poi di casi come le concubine del Mikado, o il riferimento al Genji monogatari in un'intervista, fino ad arrivare ai matrimoni combinati reali, tutte situazioni accettate con il compromesso di avere una vita più agiata nel benessere, tuttavia manca l'altro piatto della bilancia, ovvero una critica al comportamento di questi uomini e di queste situazioni, cosa invece menzionata da Nishimura e palese vedendo il film.
Vedi, il punto è che io ho citato Perseo e Andromeda, pure Ade e Proserpina, ma quelle sono solo boutade mie. Non sono né del film, né degli autori. Ovvero, io, Gualtiero Cannarsi, leggendo il film ho pensato questa mia propria analogia. E non ho mai inteso farla debordare fuori dalle righe del mio personale pensiero.

Ho detto che beh, tra i cinque più uno forse il Mikado sarebbe stato il partito migliore per Kaguya. In stasi quanto si voglia, a un certo punto del film lei è una giovinetta. Tant'è che sospira alla tiritera del consumato seduttore Ishitsukuri, che sa come concupire una giovinetta, e ci crede, e poi ci piange disperata. Un amore giovanile tradito. La cosa secondo me significativa non è tanto la moglie di Ishitsukuri, ma l'incolpevole "banalità" della giovinetta Kaguya, che per sedurre basta prendere per il verso giusto, cosa che Ishitsukuri aveva ben capito. Da cui la reazione di lei.

Non sento il bisogno, invero sento l'impedimento, di pontificare in tesi e antitesi "ipotetiche2 intorno e sopra alla narrazione. Al di là della boutade (beh, il miglior partito per lei era forse l'imperatore!), dire cosa mai e cos'altro ancora "avrebbe potuto" fare Kaguya mi pare una scemenza affine a "ma tra Mazinga e Goku chi vincerebbe?". Nella mia visione, quando si parla della realtà narrativa, i congiuntivi e i condizionali sono banditi, perché divergono inevitabilmente dall'unica realtà narrativa: il narrato.
Quindi in mancanza di una forte critica da parte tua, forte tanto quanto la critica che hai focalizzato su Kaguya (che essendosi suicidata non manchi di specificare più volte che non è una vittima, bensì è colpa sua se non ha retto e non si è adattata, anche se in realtà quel carico di violenza prima psicologica e poi fisica avrebbe messo in difficoltà chiunque senza nulla togliere all'adattamento) ho cercato di farti notare la cosa a più riprese, fino all'ultima brutale frase fatta. Perlomeno adesso hai risposto che non hai mai inteso la questione del Mikado per come te l'ho scritta. Ma dovresti esplicitare molto meglio le cose nel saggio. I miei interventi sono sempre stati atti a proporre quante più critiche, contrasti e antitesi possibili mettendo in evidenza punti che meriterebbero approfondimenti e revisioni per renderli più intellegibili.
Ma una critica mia a un personaggio non ha senso. Ripeto: non sono io a criticare Kaguya, è la narrazione a farlo, e in quella lei stessa a farlo. La quarta parete è per me invalicabile: chi è dentro non ne esce, e soprattutto chi come me ne è fuori non ci entra.

Nella narrazione, il Mikado è un agente poco più che episodico, una maschera pressoché fissa - meno patetica delle precedenti cinque, ma tant'è.

Kaguya è un personaggio che, per chiara quanto dichiarata intenzione dell'autore, viene indagato dalla narrazione nei suoi moti interiori.
Quello che ho cercato di esplicitare è che, secondo me, Kaguya hime è un film complesso che mette in evidenza molte cose in modo dialettico: critica rivolta al comportamento passivo e al suicidio di Kaguya, critica verso il comportamento di quegli uomini che trattano le donne in modo autoritario come se fossero cose, l'importanza dell'adattamento e della sopportazione, casi di compromesso, e poi ancora speranze, preferenze e libere scelte, poi coppie, genitori e ciclo della vita, raggiungimento del culmine nel rappresentare la potenza della vita e lo slancio vitale, e ancora natura, società, sofferenza, gioia, pietà e perfino la memoria.
Sono molto in disaccordo con questa tua visione a tutti i costi "multidialettica" delle cose. Per carità, a me questi dualismi piacciono dai tempi di Anassimandro, ma in questo caso mi pare una forma di lettura analitica forzosa. Ho presente cosa ha detto Nishimura, ma nel film la possibilità di interpretazione critica sul modo di menàge di coppia mi pare davvero spinta dentro a forza. In effetti l'unica coppia coniugale che vediamo è quella del tagliatore di bambù e sua moglie, ed è evidente che quella è la classica coppia in cui decide tutto lui, ma capisce tutto lei. Tipico. E' anche evidente la genuinità di lui, anche nell'errore. E non è un mistero che Takahata considerasse iòl personaggio di lui come il "secondo protagonista" del film, da cui l'importanza di Chii Takeo nella creazione del tutto.

Ma di fatto, non ci sono possibilità di coppia reale mostata per Kaguya,

Non è il caso di PoroPOro (a Taeko propongono un progetto nuziale, e poi lei decide di gettarcisi), e non siamo neppure ai livelli di Ponpoko, dove la famiglia nucleare e la proliferazione si mostra sul piano etologico e quindi sociologico, e ancora non abbiamo una famiglia nucleare in scena come per Yamada-kun.

Quindi, con buona pace di Nishimura, possiamo parlare della pochezza dei pretendenti che paragonano Kaguya a oggetti, ma mi pare evidente che tanto quelle sono le macchiette che lei doveva mandare a spasso, non sono nulla per il suo intimo, salvo poi (in battuta di ritorno) il senso di tradimento di Ishitsukuri e il senso di colpa con Isonokami.

Semmai, l'unico punto significativo in questo senso è il dialogo con Sagami in merito alle corrette aspirazioni di una fanciulla, che però serve soltanto a mostrarci il desiderio di identità di Kaguya, e poi il suo forte, forte affetto MUTO per suo padre (il ricatto di Sagami).
Tale visione complessa ritorna se pensiamo a Hotaru no haka, giacché Takahata ha affermato che non è un film pacifista. Questo perché fare un tale film sarebbe stato troppo difficile in quanto si sarebbe dovuto tenere conto di troppe cose. È la mentalità documentarista di Takahata che emerge.
Vedi? Anche se "tutti" leggono Hotaru no Haka come un film pacifista, come lo stesso Takahata dichiara in un'intervista video post-2000, quello non è un film pacifista. Non ' una questione dialettica. E' che non lo è, e tutti sbagliano. Ma se lo si guarda bene, si vede persino benissimo che non è un film "sulla guerra", né un film pacifista (ovvero "contro la guerra").
Un completamento che contiene in sé molte sfumature, dall'amore al sostegno reciproco, dal piacere alla felicità, fino ad arrivare alla nascita della vita. È qualcosa che per certi versi va ad attingere al miracolo dell'esistenza e che in termini quotidiani fa sperimentare l'altra parte del banco della vita, da figli a genitori. Ma questo non esclude dai punti importanti cose come le speranze e le preferenze, cose che, semplicemente, nella tua analisi non compaiono, mentre sono presenti nei film di Takahata.
Secondo me invece questa è una lettura molto cristiana (nessun dispregiativo inteso) di qualcosa che di cristiano non ha nulla. Credo, al contrario, che per Takahata l'amore sia "solo" una delle "cose [importanti] della vita". E anche quel che ne discende lo sia. Non credo che nella mente dell'autore esista questo "primato spiritale dell'amore per l'uomo", perché quello sarebbe un messaggio -per me molto condivisibile, eh- di un'enciclica quale "deus caritas est", o semmai grecista con l'apologia dell'Agape accanto all'Eros, ma non credo proprio che in Takahata ci sia nulla di tutto ciò.

Non credo che in Takahata ci sia una singola oncia di "analisi delle forme dell'amore".

Quello che io leggo diffusamente in Takahata, nel toto delle sue opere e di tutte le cose che ho sentito dalla sua voce e letto nei suoi scritti, in tanti anni, è essenzialmente la "semplice naturalità" della vita umana. Vita umana, non bestiale, ma ancora "naturale" in quanto e nelle forme dell'umano.

Quello che credo è che questa visione e percezione di Takahata sia stata profondamente iniettata in lui da un forte influsso, ma del tutto cosciente, dell'etica di Miyazawa Kenji, spogliata della componente buddhista (molto forte per Kenji).

Per questo dico che tutta la tua disquisizione di certi temi in Takahata, ovvero nelle sue opere, sia proprio tutta una tua proiezione.

Sin dal discorso dell'anziana alle nozze dei coniugi Yamada, viene proprio detto che "fare figli è il miglior modo in cui una coppia di coniugi possono affrontare le difficoltà della vita, e poi i figli cresceranno da sé, l'importante è restare uniti". Del resto lo slogan del film era "Serenità familiare, desiderio del mondo". Sembra esplicito. Quindi direi che quel film inneggia alla solidità della famiglia nucleare, scevra da idealismi di sorta, consolidata nella tolleranza e sopportazione vicendevole (il discorso di Takashi9, e anzi persino moderata e pacificata (il motto della maestra), sinanco nell'accettazione di un certo fatalismo sempre nei confronti della "socialità familiare" (Que serà, serà), che poi è assai affine a quell'attitudine vitalistica esaltata nei tanuki, che "vanno incontro alla vita" alla quale attendono gioiosi e allegri, "facendo figli e a volte persino morendo anzitempo".

A me sembra sempre che Takahata ripeta che chi nasce nasce per vivere, quindi deve vivere davvero, al meglio delle sue possibilità di vita individuale e comunitaria, e poi morire lasciando che la vita di alteri prosegua dopo la sua.

Voglio dire, quando uscì PoroPoro in Giappone si alzarono molte voci di critica "femminista", perché secondo queste critiche il film era retrogrado nell'esaltare una donna impiegata che vive da sola, bella tranquilla, e molla tutta per andare incontro a un amore campagnolo, dove sarà la moglie di un contadino.

Agli antipodi, potremmo dire che PoroPoro è un film "molto femminista", perché Taeko che tanto non faceva che le fotocopie in azienda (tipica funzione da OL giapponese, del tutto inabilitatat alla carriera), "prende in mano la sua vita" e molla tutto con grande caparbietà per fare quello che ha deciso lei, divergendo dalla strada in effetti segnata dalla società.

Personalmente, credo che entrambe le letture siano idiote.

Quello che voleva dire Takahata, secondo me, è che Takeo si era "bloccata" nella sua vita. Si era bloccata in città, ma poco conta. Si era bloccata perché non si sa bene (e manco lei lo sapeva) che cosa stesse "aspettando" dalla vita. Ma aspettando che la vita ti venga incontro, non arriva niente.

Chiaramente questo non lo dico io. Lo dice il film, i pensieri del personaggio, soprattutto lo dice la canzone di chiusura del film. Che poi è ESATTAMENTE quello che capita a Kaguya, no? Neve invernale inclusa.

Anche Taeko, bloccata, non stava vivendo "i punti importanti" della vita. Che poi è quello che la sorella maggiore, pur da comare, le rinfaccia al telefono.

Solo che, grazie a Toshio, Taeko riesce a sbloccarsi, Kaguya no.

Ed è solo per questo che Taeko va incontro a un lieto fine, dove lei "ricomincia a vivere", e invece Kaguya finisce in tragedia, e muore "senza avere vissuto appieno"-

In questo senso, anche la frase di Kaguya a Sutemaru "con te avrei potuto trovare la felicità" mi rimanda alla possibilità di sbloccarsi. Ci possono essere tanti modi per sbloccarsi. Ma comunque si tratta di aperture. Una cosa costante di Takahata è che anche la scelta individuale deve puntare a una socialità. Taeko molla la sua vita urbana, ma non va a fare la suora cenobita: va a vivere in campagna, dove c'è una socialità anzi molto genuina (la franchezza della nonna), e va per sposare un uomo - il rapporto coniugale è socialità di coppia. I tanuki, chi perché può trasformarsi, chi perché no, vivono diverse socialità. Gli irriducibili muoiono per suicidio o per violenza. Anche Seita, che rifiuta la socialità della sua epoca, muore. E così Kaguya. La corte sarebbe stata una socialità. Non vuoi quella? La montagna ha la sua altra socialità. Certo cambiare binatro è dura, ma ci si può riuscire.

Persino quando alla fine lei torna alla sua montagna non ci arriva come una matta, tipo ai tempi della sua fuga adolescenziale dalla nominazione. Chiede aiuto alla madre. E da lei ottiene aiuto.

Da sola non ottiene nulla che il frutto del rifiuto: la morte.
Comunque anche per me si può chiudere il dialogo.
:-)

Aggiungo una cosa in edit.

Credo che Miyazaki, un uomo molto idealista e molto sul crinale della "rappresentazione" della vita (super ego), ci abbia messo una vita a risolversi con la memoria del padre suo, che da giovane tacciava di collaborazionismo. Credo che abbia fatto Kaze Tachinu per questo, dove empatizza con uno che ha disegnato mezzi di morte come gli Zero.

Al contrario, quando Takahata ha criticato Kaze Tachinu, per contro ha apprezzato Miyazaki nel suo far capire che, a quei tempi, la vita in Giappone ERA essere parte di una società militarizzata, e non c'era alternativa - vivere significa essere così. Un po' come per Seita avrebbe significato sopportare e mettersi al servizio dei tonarigumi. In buona sostanza Miyazaki, il bravissimo bimbo figlio di sua madre (come lui stesso dice di essere stato quando Suzuki gli lamenta l'eccessiva perfezione di Satsuki in Totoro), mi sembra - oltre che il Jirou bambino in Kaze Tachinu - una sorta di Seita a cui non è morta la madre, né il padre. Ovvero un viziato, bravo e intelligente, a cui non sono capitate disgrazie - e che quindi ha continuato a potersi preoccupare e dedicare alla "giustizia" dei suoi idealismi.

L'idealismo di Miyazaki e Takahata è sempre stata una cosa molto diversa.

Per Miyazaki è avere un ideale e lottare per quello, fedelmente. Per questo mi piace, tra i suoi film, Mononoke Hime: perché lì anche se gli ideali sono rispettati il lietissimo fine non può esserci. Mi pare quasi onesto. Teoria perfetta ma in pratica non funziona. Terapia perfetta ma il paziente è morto. Comprensione vicendevole totale ma i due si separano.

Per Takahata invece l'idealismo non c'è in quel senso, ovvero il suo "essere idealista" è piuttosto restare fedele alla propria "voglia di vivere", ovvero l'annullamento superegotico (autocosciente) del proprio superego, ovvero il nichilismo reale ed assoluto.

Credo sia una cosa difficile da sentire, figurarsi esprimerla a parole. Mi scuso per questo.
Ultima modifica di Shito il ven gen 08, 2021 7:49 am, modificato 2 volte in totale.
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Shun
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Shun »

Rieccomi, vedo che mi hai anche beccato in flagrante mentre rileggevo e aggiungevo alcune cose nel post precedente.

Ci sono tre punti principali che vado a considerare.

In primo luogo sono in disaccordo con la tua opinione sulle dichiarazioni di Nishimura. Se ha affermato che nel film c'è sicuramente una critica (esplicita o implicita) rivolta agli uomini che trattano le donne come cose e che è una delle tematiche universali incluse in esso, bisogna semplicemente prenderne atto. Non si può “mettere in disparte” (con buona pace di) una considerazione fatta da chi ha dialogato e lavorato con Takahata. Fosse stata una persona molto esterna avrei capito, ma in tal caso proprio no.

In secondo luogo mi sembra che ci sia un fraintendimento riguardo il mio discorso su Kaguyahime come film complesso dialettico quando ho citato l'intervista (intervento) su Hotaru no haka. Il senso non è che “tutto torna” tra i due film nell'ottica della visione dialettica (e quindi no, non volevo insinuare che Hotaru no haka è un film dialettico e quindi anche pacifista nelle intenzioni dell'autore), bensì il punto importante della dichiarazione è quando Takahata parla di approccio documentaristico per originare la riflessione. Penso che questo sia un punto focale dell'operato di Takahata e che quindi anche in un film come Kaguyahime la messa in scena, l'indagine, la critica e gli spunti di riflessione siano da intendersi a tutto tondo, essendo tutte sfaccettature che Takahata ha cercato di portare dalla realtà alla finzione.
A differenza di un documentario in cui il contenuto è intrinsecamente presente nella forma (e.g. doc.naturalistici) o è presentato attraverso un insieme notevole di documenti (e.g. doc.storici, doc.scientifici), in un film è necessario costruire la forma da zero e “attaccare” a essa un certo numero di contenuti. Solo che in questo processo di passaggio dalla realtà alla finzione si crea una rarefazione del contenuto in quanto non è possibile trasferire la complessità del reale nella finzione, ed è per questo che Takahata fa spesso riferimento all'approccio documentaristico essendo questo strutturalmente più completo, razionale e oggettivo di quanto non sia un film. È in quest'ottica che intendo la dichiarazione di Nishimura e che vedo la complessità multi-dialettica di Kaguyahime. C'è un punto focale che è Kaguya e il suo comportamento (d'altronde è la protagonista), ma oltre a ciò è presente tutto un “mondo” che è stato costruito in modo tale da permettere, per quanto possibile, la messa in scena, l'indagine, la critica e gli spunti di riflessione su tanti elementi.
Quindi quando ti ho scritto di criticare anche il Mikado e i pretendenti oltre a Kaguya intendevo che è il film stesso a contenere in sé questi elementi di messa in scena, d'indagine e di critica, e non che fosse una cosa esterna da fare noi. Perché il punto non è lo screen-time dedicato, ma è la semplice presenza di questi elementi che non sono filmati naturalmente ma sono inseriti/costruiti con in mente, da parte di Takahata, la complessità del reale. D'altronde è proprio Takahata che ha ribaltato alcune cose nel passaggio dal Taketori monogatari a Kaguyahime, tra cui la parte dei pretendenti in cui sono loro che comparano Kaguya a un oggetto e non lei che, come nel libro, tira fuori la questione degli oggetti. Aggiungendo quanto detto da Nishimura, nonché la dichiarazione in cui Takahata cita il Genji monogatari e afferma che in Kaguyahime ha inserito tutta una serie di riflessioni critiche verso quel tempo e i suoi ideali estetici, tutto torna. Ovvero è ben plausibile che ci sia anche la presenza esplicita o implicita di un'indagine e di una critica sull'argomento in questione.
Un esempio che riguarda la complessità costruita anche tramite piccoli elementi è la critica che Takahata ha mosso a Miyazaki sulla parte finale di Kaze tachinu:

Takahata: Well, that is true. For me, as for a lot of women, my understanding was that The Wind Rises is a movie based on a love story between Horikoshi Jiro and Nahoko and then watched it, and accepted it as a film about a love story. I’m really not sure if I should say this, but there was a scene toward the end of the film that showed a great number of Zero fighter planes that had been decimated, and I thought that there should have been a depiction of what had happened during the World War II prior to the scene. It would have been fine to be in the form of an objective description. 

Miyazaki: I thought about that a lot myself. But creating a scene like that seemed like trying to create an alibi…. So that is why I decided not to go for it.

Takahata:  A wreckage of Zero fighter planes means that many people died at the same time. Aside from people who are above a certain age, there are many in the younger generation who do not understand what that war was. So I would have liked you to describe it, regardless of the format you used. But I knew that this was a result of Miya-san thoroughly thinking it through. It’s unimaginable you wouldn’t think about it. 

Miyazaki: Yes, and it may be that I have seen too many images of Zero fighter planes in documentaries, but there is a lot of evidence as well as records available. Without touching upon it otherwise, I thought that it would be impossible to have the audience understand all of it through an animated film alone. I thought that it would only serve as a harsh element. The initial concept did include that sort of scene, but since Zero fighter planes were used from the Sino-Japanese War all the way to the end of World War II, it would have taken up a lot of time. 

Takahata: Still, I think that even if it was a short scene, it would have been good to take some time to recall the type of events that occurred at the time. 


Anche solo una breve scena avrebbe permesso una rappresentazione più complessa e quindi più realistica, dunque un'indagine, una critica e degli spunti di riflessione a più ampio respiro, proprio come in un documentario. Per quanto riguarda la mia visione dialettica di Kaguyahime trovo che sia semplicemente utile per discutere di elementi connessi tra loro per via di qualche caratteristica, tipo Luna-Terra, corte-campagna, antico-moderno e così via. Sinceramente non mi pare forzosa, tutt'altro, è il film stesso che mostra questi elementi in relazione tra loro.

In terzo luogo, non ho mai parlato di primato spirituale dell'amore nel pensiero di Takahata, hai sovrainterpretato il mio discorso. Come credevo fosse chiaro dai miei commenti ho sempre inteso che per Takahata l'amore fosse uno dei punti importanti e non l'unico punto importante. Dato che mi è sembrato di non essere stato capito, come se avessi escluso totalmente il punto, nell'ultimo commento ho specificato l'importanza dell'argomento per Takahata e ho semplicemente esplicitato che in una relazione ci sono vari aspetti e che nei film ciò è evidente: il sentimento e il desiderio di Taeko verso Toshio "Io, adesso, avrei voluto che a stringermi la mano… fosse il signor Toshio. Solo stringere la mano?"; il sostegno reciproco e la stabilità familiare espressi in Yamada-kun; il piacere erotico (Kaguya e Sutemaru), la felicità citata da Kaguya e la gioia di vivere espressa nel concept; la nascita della vita, genitori, figli e famiglia da Pompoko a Yamada, etc... Solo la considerazione sul miracolo/mistero della vita/esistenza è una mia cosa personale, che in effetti potrebbe avere radici spirituali. Poiché di mio non so se in Takahata ci fosse anche un'oncia dedicata alle forme dell'amore e dello spirito, essendo una cosa che andava chiesta direttamente a lui, non posso che sospendere il giudizio su tale argomento.
Infine, per lo sblocco di Taeko e Kaguya sono d'accordo, tra l'altro non mi pare di vedere differenze rispetto a quello che ho scritto finora, come puoi leggere sia qui che altrove non ho mai sostenuto che Takahata indicasse una delle due ipotesi "idiote", di cui la prima esclusivamente retrograda e la seconda esclusivamente individualistica, bensì ho sempre parlato di dialettica e quindi di compresenza di varie spinte. Ciò che ho cercato di esplicitare finora è che l'andare incontro alla vita è un atto costituito dalla sintesi attiva di vari elementi senza soluzione di continuità. Inoltre la socialità takahatiana l'ho sempre sostenuta... cito: "la socialità e la progettazione di una famiglia rappresentano probabilmente i punti in cui impegnarsi, ma questi non implicano la negazione di pratiche e spazi utili per sviluppare la propria individualità," intendendo con questo non l'isolamento in un'individualità egocentrica ma semplicemente la possibilità e la capacità di fare anche cose in modo autonomo, da se stessi, tipo osservare le foglie che cadono, passeggiare, scegliere e cambiare un percorso di studi, interessarsi all'arte e alla letteratura (tanto per fare degli esempi relativi al nostro caso). Se Takahata ha seguito la "naturalità delle cose" e si è sposato non è che poi non ha fatto nient'altro, bensì ha anche coltivato i propri interessi personali (come lo studio e la musica) senza per questo rinchiudersi in una torre d'avorio. Inoltre l'interesse e lo studio rivolto da Takahata ai lavori di Frederic Back ha poi portato all'amicizia tra i due, analogamente l'interesse per le potenzialità dell'animazione (Kenzo Masaoka, Le Roi et le Oiseau, etc) ha contribuito alla nascita del legame di lunga data con Miyazaki, e così via.

Sul resto non mi soffermo e quindi propongo di concludere. Alcune delle considerazioni che mi sono sembrate adatte e interessanti da condividere le ho scritte e mi pare che ne abbiamo dialogato abbastanza, pertanto non sento più un'urgenza comunicativa, inoltre dato che sono di nuovo impegnato in real life mi fermo qui con le repliche.
Un saluto a tutti. :sorriso2:
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Sayonara no Natsu
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Re: "Non si deve fuggire!", ovvero: il cinema e il pensiero di Takahata Isao (più: ricosiderazioni su Kaguya)

Messaggio da Sayonara no Natsu »

Non so se ancora vi ricordate, ma più di un anno fa, ormai, si dibatteteva proprio in questo thread abbastanza accaloratamente di Takahata e dei suoi film. La discussione si concluse dopo, al solito, un messaggio parecchio tranchant di Shito rivolto a me. In verità io avrei voluto continuarla, perché le cose da dire comunque c'erano, ma in quel periodo non potevo proprio. Il problema è che io continuo a rimuginare sulle cose anche dopo mooooolto tempo che sono avvenute, e sinceramente sono sempre rimasto con la sgradevole sensazione di non aver fatto valere le mie ragioni e quindi di aver lasciato correre quelli che per me sono veri e propri errori. Ma una volta che mi liberai di quegli impegni, pensai che oramai non fosse comunque più il caso di riprendere il discorso. Ora, però, essendomi infine deciso a ultimare e pubblicare alcuni messaggi su cui riflettevo da parecchio, mi sono preso di coraggio e ho riesumato, con una faccia tosta niente male, persino questa discussione.

Il problema, tuttavia, è che ultimare semplicemente quanto ero riuscito a scrivere all'epoca sarebbe stato troppo stupido e di cattivo gusto persino per me, perché in fondo il tempo è passato e il senso di continuare battibecchi stupidini è venuto meno. Ho perciò pensato che non sarebbe stata poi una idea troppo malvagia riprendere quanto scritto ed essenzialmente rimaneggiarlo un po' in modo da farlo diventare un discorso generale, non più strettamente collegato a una precisa discussione. E così ho fatto. :)

Dunque...

Al tempo, se vi ricordate, uno dei punti salienti della questione riguardava il rapporto tra città e campagna. Di mio, continuo a credere che nei film di Takahata i diversi tipi di società non siano trattati unicamente con una sorta di sguardo documentaristico, dove vengono per lo più osservate le differenze che intercorrono tra loro. Non penso che lui si mantenesse del tutto distaccato, quasi come uno scienziato che si limita a studiare e a capire il funzionamento e le dinamiche di qualcosa. Penso, invece, che perlomeno nelle sue opere (devo ancora riuscire a capire cosa egli pensasse veramente XD) abbia coscientemente immesso anche un giudizio, e, di conseguenza, abbia anche espresso una predilizione.

In verità, già molto è stato scritto e molte cose interessanti sono state dette (anche in seguito), ma stavolta non desidero riprendere il discorso dall'inizio per trattarlo in maniera ampia e dettagliata. Piuttosto mi vorrei limitare a solo qualche considerazione a suo tempo tralasciata ma a mio parere significativa... ^^

Dopo averci riflettuto un po', mi sono fatto l'idea che, parlando in generale, sia errato "disgiungere" un elemento di un film dal film stesso, poiché un'opera non è soltanto la somma delle sue parti. Se gli si toglie la colonna sonora, ad esempio, ciò che rimane non è semplicemente lo stesso film ma senza colonna sonora, bensì è proprio un'altra cosa. Un po' come un dialogo che per essere correttamente interpretato deve venire considerato nel suo preciso contesto, con la combinazione delle sue caratteristiche un'opera assume un significato unico, che non si può riscontrare realmente se la si smembra in vari pezzi e li si studia singolarmente.
In Omohide PoroPoro, è vero, il punto è che Taeko sceglie Toshio, sceglie di sposarsi accettando i rischi del vivere e assumendo infine il controllo della propria esistenza. Ma è lecito escludere tutto il resto?
In linea teorica, lo stesso sviluppo del personaggio si sarebbe potuto avere anche nel deserto del Sahara o sulla cima dell'Everest, e sempre in teoria si sarebbe potuto esprimere lo stesso significato della scelta di Taeko di abbandonare tutta la sua vecchia vita per diventare una campagnola anche facendole scegliere di diventare un'autista o un'architetta. Voglio dire, dinamiche umane come la maturazione, la crescita, lo sviluppo di capacità e consapevolezza che permettano l'autodeterminazione e così via, non sono certamente relegate a un determinato ambiente o a precise vicende ed esperienze. Ma dunque, che la scelta di Taeko comprenda nei fatti anche il mutamento di un certo tipo di vita a favore di un altro e che tale scelta sia anche frutto di un certo tipo di esperienze strettamente legate al mondo agreste, non ha proprio nessuna importanza, nessun significato? Io penso di no.
Come ho detto prima, probabilmente è sempre sbagliato separare un elemento dalla sua opera, ma in questo caso in particolare a mio dire l'ambientazione è così strettamente legata a ogni altro aspetto della storia che diventa parte del contenuto stesso.
Inoltre, cosa piuttosto significativa e ancor meno soggetta all'opinione del singolo, sono i personaggi stessi del film a paragonare città e campagna e a esprimere un giudizio: poco prima che la nonna proponga a Taeko di restare e di sposarsi con Toshio, le chiede se davvero preferisce quel luogo alla città e lei risponde assolutamente di sì e che ormai Tokyo è invivibile con tutte quelle macchine e quei palazzi (e in effetti la pellicola si apre con l'immagine di un palazzo e rumori di clacson in sottofondo).

Di mio, persino in Ponpoko avverto questa predilizione. Voglio dire, al di là di tutto, molto banalmente il concetto stesso di accettazione, l'idea di adattamento, perlomeno per come sono qui mostrati, presuppongono in partenza che lo stadio originario sia preferibile/preferito a quello in cui bisogna integrarsi. Certo, si potrebbe dire che questa predilezione esiste solo per i protagonisti che sono costretti loro malgrado a vivere questo cambiamento, e quindi che non sia in ultima analisi un tema reale dell'opera. Eppure, per quanto possa sembrare un'affermazione ardita, io non penso sia lecito liquidare così facilmente la questione: la ricreazione illusoria finale delle fattezze della zona prima dell'urbanizzazione, è, proprio perché senza alcun accenno di rabbia o disperazione da parte dei protagonisti e anzi con solo una sorta di giocosa rassegnazione, talmente intensa e malinconica che faccio fatica a credere che sia una sequenza finalizzata unicamente alla rappresentazione dello stato d'animo, della visione di una fazione interna al film, senza quindi assumere un significato più generale. Mi sembra inverosimile, insomma, che, visto il grande risalto e la grande potenza emotiva conferiti alla scena, non ci sia assolutamente nulla del pensiero del regista, che Takahata fosse totalmente estraneo, lontano da quei sentimenti, anche solo considerando che, se i tanuki rappresentano veramente i giapponesi di una volta, allora doveva effettivamente essere loro piuttosto vicino perlomeno per un motivo meramente anagrafico. O perlomeno, mi sembra del tutto impossibile che non abbia inteso sfruttare un momento tanto intenso, e quindi influente, per veicolare, per esprimere un "concetto" che andasse anche al di là della mera narrazione, un concetto che non si limitasse a portare avanti semplicemente la storia ma che esprimesse una visione più profonda.

Tutto ciò mi porta spontaneamente a fare un'ulteriore considerazione. Takahata mi sembra apprezzasse molto le opere da "sentire" (non amava forse particolarmente Miyazawa Kenji e non era Totoro il suo lavoro preferito di Miyazaki?), e infatti, come in questo caso di Ponpoko, a mio parere lui stesso ha "espresso" più e più volte le proprie concezioni attraverso passaggi che fanno maggiore leva sul lato emotivo che su quello razionale. E innumerevoli, in questo senso, sono i momenti di nobilitazione del mondo naturale: si pensi anche solo all'infinita bellezza e dolcezza con cui viene rappresentata la fioritura delle piante e degli alberi e in generale al profondo senso di comunione, si potrebbe dire quasi di panismo, con il mondo naturale che più volte ha voluto trasmettere. Non c'è sua opera in cui questo panegirico silenzioso della natura non sia presente. A questo proposito, è esemplare la scena sinceramente toccante dell'albeggiare sempre in Omohide poro poro (che io tra l'altro continuo a vedere come una versione laica dell'Angelus di Millet, il che sarebbe già una dichiarazione d'intenti...), ma già in Heidi momenti simili abbondavano, e di mio continuo a pensare che anche la sequenza iniziale della "svestizione" abbia in qualche modo lo stesso significato. Già al tempo ne parlammo, e so ora come sapevo benissimo anche allora che questa parte è presa direttamente dal racconto originale, dove non esprime alcun concetto particolare. Tuttavia, sono sempre di questo avviso perché nella versione animata, se lo si considera col senno di poi, TUTTO concorre a donare a quel gesto un senso liberatorio eccezionale, come se con quelle vesti ingombranti e asfissianti la protagonista si sbarazzasse di tutte le costrizioni della civilità. Infatti, subito dopo inizia una sequenza totalmente contrapposta alla precedente, quest'ultima contrassegnatada da un senso di soffocamento, lentezza e oppressione, che trasmette, grazie pure a un uso accorto del tema musicale principale, una sensazione di ariosità, di vitalità, di spontaneità e di felicità a dir poco folgorante. Nel libro, non c'è nulla, NULLA di simile a livello emotivo. Ma, cosa ancora più importante, questa è senza dubbio una sequenza molto cara, e quindi per lui probabilmente anche pregna di significato, a Takahata, dato che l'ha riproposta ben altre 2 volte tra Ponpoko e Kaguya - e no, qui i personaggi non avevano caldo.

Ma è proprio Kaguya hime, a proposito, ad essere l'opera che più sfrutta questo particolare linguaggio, che più abbonda di momenti "da sentire". Ed è anche quella, a mio parere, dove viene espressa con maggiore enfasi sempre la medesima predilezione. E' il film stesso, infatti, che porta a provare sentimenti di viva gioia o di quieta tranquillità quando Kaguya è sui monti, di angustia e tristezza fin tanto che si trova al palazzo (in tal senso, già quando andai al cinema 5 anni fa trovai esemplare la scena del volo di Kaguya, poiché fin lì la situazione non aveva fatto altro che peggiorare e mi sentii sempre più oppresso fino alla scena con Sutemaru dove avvertii, come una pustola purulenta che scoppia, una grandiosa sensazione di liberazione), e, quando vive o sta andando sulla Luna, di oblio, morte e "grigiore", letteralmente, in questo caso. Anche i colori, infatti, sembrano rispecchiare i diversi ambienti: in montagna sono molti e variegati, di meno in città (ma non per un'intriseca differenza ma perché, banalmente ma significativamente, lì le esperienze di vita, le possibilità di vedere cose diverse vengono limitate, ridotte) e praticamente nessuno sulla Luna.
Un'ultima osservazione. Davvero parecchie volte, nel corso della storia, i vari personaggi parlano e si interrogano su ciò che avrebbe reso felice Principessa. Il tagliatore di bambù, madama Sagami, la servitrice, i pretendenti, persino Sutemaru... A partire dal padre della protagonista, praticamente tutti ritengono che la felicità coincida con la "civiltà cittadina", con un innalzamento del tenore di vita e dello status sociale: ricchezza, oggetti materiali, cibi gustosi, incontri e amori con individui altolocati. E' quasi il leitmotiv del racconto.
Man mano che la storia prosegue, però, questa visione entra via via sempre più in crisi: più Principessa "sale", più soffre. I primi corteggiatori anonimi, i nobili pretendenti, il Mikado e infine Buddha stesso: a dispetto del senso comune, più i ranghi che le si prospettano sono elevati, più la sua vicenda diventa tragica. Il raggiungimento della vetta più alta a cui una donna mortale poteva ambire, è contemporaneamente anche il momento della massima disperazione della protagonista, e il passo successivo, l'ascesa ulteriore, è al contempo anche la pena più dura. Alla fine, Takahata ribalta totalmente la visione iniziale, facendo dire proprio a Principessa che né la vita a palazzo né il mangiare cose gustose le hanno procurato la felicità, ma che invece l'avrebbe trovata se fosse rimasta con Sutemaru, vivendo come lui e come già lei stessa viveva un tempo.
Ricordando le discussioni passate, probabilmente saremo in disaccordo, eppure non riesco a non pensare che in qualche modo Takahata compia un "abbassamento" dell'uomo, chiaramente in un senso ben preciso.

Questa non vuole essere in alcun modo un'analisi approfondita, però ho come la sensazione che ragionando sui film di Takahata in ordine cronologico, si possa cogliere anche una certa evoluzione del suo pensiero: con Poroporo sembra ancora auspicare una sorta di ritorno o comunque di non abbandono delle radici giapponesi; Ponpoko, già più disilluso, tratta dell'inevitabile adattamento a cui tutti devono andare incontro; con gli Yamada, mettendo da parte ogni vecchia speranza, parla di una famiglia del tutto intergrata nella nuova società, indicando a questo punto come affrontare la vita; con Kaguya, infine, sembra quasi che osservando la deriva della società si fosse così irretito da creare un'opera in cui emerge con forza l'antico biasimo, ma stavolta senza le vecchie velleità e speranze, e dunque senza alcun lieto fine per la protagonista.
Benjamin was the only animal who did not side with either faction. He refused to believe [...] that the windmill would save work. Windmill or no windmill, he said, life would go on as it had always gone on– that is, badly.

Animal Farm